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PEOPLE_Norman Parkinson e il realismo in movimento

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Norman Parkinson: il fotografo e gentleman inglese che ha cambiato il modo di vedere e raccontare la moda e le donne. Questo, in sintesi, lo spirito emblematico dell’opera stilistica di Parkinson. A lui va il plauso d’aver liberato la figura femminile, permettendole di muoversi all’interno dello spazio fotografico. Fino ad allora – si parla degli anni ’40 – era buona norma che le modelle stessero ferme su uno sfondo statico. È lui il primo a svincolarsi da questo dictat, preoccupandosi, in prima istanza, di chi fossero realmente le donne immortalate e cosa andassero a rappresentare e mettendo in secondo piano  come avrebbero dovuto apparire secondo i canoni dell’epoca. Pertanto, le sue fotografie e le protagoniste di esse, divengono un segno dei tempi. Le sue non sono immagini alla moda, bensì narrano di persone reali che si muovono al loro interno: l’abito diventa così elemento di contorno e la fotografia assume un nuovo ruolo sociale e narrativo, raccontando di un luogo, di un’epoca, di un’emozione. Un cambiamento stilistico – le modelle che si muovono – parallelo a quello sociale e culturale – l’emancipazione e la liberazione della donna nel XX secolo.
Parkinson inizia la carriera nel 1931, diventando apprendista presso i fotografi di corte Speaight and Sons Ltd. Tre anni dopo si mette in proprio, aprendo un piccolo studio a Mayfair, nel cuore di Londra, specializzandosi come fotografo di debuttanti. Nel 1935 inizia a scattare per Harper’s Bazaar e Queen, mentre nel 1940 per la versione inglese di Vogue, usando uno stile tutto suo: scatti realizzati con la luce naturale, che colgono nel vivo fuggevoli istanti della vita delle donne.
Fotografia dopo fotografia, entra a far parte della viva e attraente scena creativa londinese, familiarizzando con il movimento surrealista e con i trucchi visivi, spesso umoristici, che lo caratterizzavano.È così che in molti suoi scatti riecheggiano contraddizioni tipiche del surrealismo e degli esponenti più celebri: da Spring hats in Bath, che ricorda De Chirico all’immagine della modella in un bosco, con un abito rosa Lancetti e il famoso divano ispirato alle labbra di Mae West disegnato da Edward James con il benestare di Salvador Dalì.
Parkinson amava lanciarsi a capofitto nelle sue imprese, concretizzando le sue idee senza lasciare nulla per intentato. Nei suoi lavori trapela la concezione della fugacità del tempo, del fatto che in pochi istanti potesse svanire tutto e, quindi, della relativa capacità di coglierlo nella sua autentica essenza, riproponendolo in chiave illustrata, quasi ad immortalarlo nella sua fulminea eternità.
Nel 1964 decide di trasferirsi a Tobago, dedicandosi all’allevamento e alla produzione di una varietà di salsicce chiamate “Parkinson’s bangers” che spedisce a Londra. Si tratta, però, di un soggiorno breve, dal momento che Diana Vreeland in persona, divenuta l’anno prima fashion editor per l’edizione statunitense di Vogue, lo chiama a collaborare per la rivista. Parkinson riprende a pieno regime, divenendo negli anni ’80 una vera e propria icona dell’arte fotografica: i suoi scatti, ancora una volta, definiscono un’epoca. Animato dal suo stile inconfondibile, continua a fare il contrario di quello che vuole la moda, ossia controllare l’identità della persona. Parkinson la libera: di muoversi, di esprimersi, di lasciarsi contagiare e, a sua volta, di contagiare con irrefrenabile entusiasmo e, al tempo stesso, irrinunciabile concretezza. Come per l’arte di Martin Munkacsi, suo punto di riferimento sul finire degli anni ’30, anche per la sua vale la definizione di realismo in movimento: nulla è statico e tutto avviene in scenari vicinissimi alla realtà quotidiana di ogni essere umano. Nel corso della sua carriera stilistica, passa da ambientazioni pastorali, decisamente britanniche, a contesti urbani (complice il trasferimento a New York), fatti di grattacieli e macchine sfreccianti.
Nel 1981 diventa fotografo ufficiale della corte inglese e lo stesso anno la National Portrait Gallery di Londra espone mezzo secolo del suo lavoro nella moda.
Gentile ed eccentrico quel tanto che basta per creare un personaggio in linea con la sua vocazione interiore, Parkinson era un perfetto gentiluomo inglese: garbato ma determinato, ironico e divertente, ma, al tempo stesso, convinto della sua arte al punto da desiderare di sperimentare ogni dettaglio per una resa formale d’avanguardia.

LEISURE_Florence Design Week

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A cavallo tra le consuete edizioni di Pitti Immagine, Firenze si prepara ad accogliere un’altra manifestazione dal respiro multidisciplinare.
Dal 20 al 26 maggio si svolgerà, infatti, Florence Design Week, uno degli eventi culturali-espositivi più importanti nel panorama nazionale ed internazionale, dedicato al design in tutte le sue forme di espressione, all’arte e all’ingegno, intesi come strumenti di comunicazione e di valorizzazione della cultura e dell’identità di individui, imprese e Paesi.
Teatro dell’iniziativa, diverse e prestigiose locations fiorentine; protagonisti, professionisti, aziende, università, buyers, direttori artistici, appassionati e artisti provenienti da tutto il mondo.
Lifestyle e arte di vivere i filoni lungo i quali di svolgerà il fitto programma di incontri e appuntamenti che per una settimana terranno banco nella città medicea.
Sulla scia del tema “Crossing People”, il Festival rappresenta un’occasione di incontro e confronto, grazie alla quale il pubblico che vi prenderà parte potrà interagire esplorando i diversi linguaggi del design(graphic e visual, industrial, fashion, interior, music and food). A corollario, un ampio focus sull’artigianato contemporaneo che punta sulla interdisciplinarità, la sostenibilità e l’interculturalità al fine di comunicare il valore e il significato delle numerose realtà attive nel mondo del design.
Emozioni, ricerca e innovazione per una settimana si sposeranno con il prezioso patrimonio artistico, generando un dialogo contemporaneo e stimolante.
Un evento, quindi, animato da un crocevia di persone di culture diverse, ciascuna con interessi propri, animate da singolari passioni che trovano un palcoscenico privilegiato in una manifestazione dal respiro internazionale. Il pubblico varcherà una Firenze consapevole del proprio bagaglio storico e del valore del presente, per immergersi in un itinerario dove il design si coniuga con il prestigio dei luoghi, toccando punti focali come la Biblioteca Nazionale Centrale e Palazzo Bombicci Guicciardini Strozzi. Una commistione tra passato e futuro, che prende, mixa e reinterpreta visioni e ispirazioni, creando nuovi scenari di sostenibilità e innovazione, complice una serie di esperienze interattive che si svolgeranno presso il Complesso delle Murate: qui si alterneranno workshops, speed dinners, esposizioni culturali e intrattenimento, combinando sapientemente business sostenibile e cultura digitale in collaborazione con FabLab e ToscanaIN, nonché il concorso Design Win Make, dedicato a tutti gli artigiani digitali.
Le distanze tra i luoghi vengono così oltrepassate, nell’ottica dell’abbattimento di ogni barriera o limite spazio-temporale: il design diviene la sola chiave interpretativa ed espressiva con cui comunicare il cuore della propria cultura e stimolare la nascita di fertili collaborazioni.
Sulla scia di un simile leitmotiv, verranno realizzati numerosi incontri, ossia vere e proprie occasioni di confronto: primi su tutti, “Chromo Sapiens, l’evoluzione del colore nell’architettura e nel design”, realizzato presso l’Archivio di Stato, e la mostra “A tre dimensioni – modelli di Architettura dai fondi dell’Archivio di Stato di Firenze” a cura dell’Associazione Le Polveriere.
Un concetto di design trasversale, che mette in risalto gli ampi scenari dell’arte contemporanea internazionale presso gli eleganti Palazzo Borghese e Grand Hotel Minerva, in un’esperienza condivisa con la rivista Arttour International, in collaborazione con Vivid Arts Network, Art for Florence Design Week e da quest’anno con Florence Biennale.
E se dire artigianato significa evocare l’universo che ruota attorno al made in Italy, Art.Co Artigianato Contemporaneo, in collaborazione con CNA Firenze, pone i riflettori su una riflessione che assume le tinte dell’eccellenza italiana in tutta la sua magnificenza.

Florence Design Week
Dal 20 al 26 maggio, Firenze

PEOPLE_Irene Galitzine: la principessa della moda

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Stilista italiana, Irene Galitzineè stata soprannominata, a ragion veduta, la “principessa della moda”. E, in effetti, principessa, lei, lo era di fatto. Arrivata da bambina a Roma con la famiglia in fuga dalla Russia, si dimostra, sin dalla giovane età, una donna di grande fascino e cultura. Studia storia dell’arte e parla diverse lingue, mostrando un’apertura mentale e una curiosità vitale per tutto quanto rappresenta un elemento di novità. Possiede uno stile innato, che non passa inosservato alle Sorelle Fontana, vedendo in lei l’ideale ambasciatrice dei loro abiti.
Un destino, quello della moda, che appare in maniera dominante nella sua vita nel 1959 con la prima collezione. Disegnata in collaborazione con Federico Forquet, in sartoria viene realizzata dalla première Maria Carloni, uscita dalla maison Ventura. Il 1960 segna una tappa fondamentale nella sua carriera stilistica e nella storia del costume: viene lanciato il celeberrimo palazzo pigiama, che, presentato nella Sala Bianca di Palazzo Pitti, si diffonde in tutto il mondo, fotografato e idolatrato da tutti i media, creando un vero e proprio fenomeno di tendenza.
Elegante ma al tempo stesso femminile, sofisticato quel tanto che basta per nulla togliere a quell’alone d’intrigo tipico di una donna misteriosa e affascinante, incanta Diana Vreeland, storica direttrice di Vogue America. È proprio lei, la sacerdotessa della moda, a battezzarlo così. D’un tratto, Irene Galitzine balza agli onori della cronaca, divenendo icona di uno stile ben preciso. In quell’ampio, prezioso ed elegante insieme da sera si cela la sua visione: pantaloni, ma ultra femminili, per la donna moderna, o gonna ampia, danzante, per le linee più devote a un’ispirazione classicheggiante; colori forti, decisi, che possono rendere sensuale anche un semplice impermeabile; ostracismo al nero per la sera a favore di piccoli abiti fiammanti o tailleur di seta.
Il suo sodalizio con i grandi nomi vede alternarsi diverse figure di elevata caratura, custodi di un prestigioso patrimonio stilistico e culturale: dopo Forquet, si avvale della collaborazione del disegnatore scpagnolo Elias Zabaleta. In ogni caso, Irene Galitzine pone sempre al centro della sua moda la donna e la sua femminilità, esaltandola con quella semplicità delle forme che evoca uno scrigno di contenuti, quintessenza di profondi e radicati significati.
Nel 1988, presenta i suoi abiti al teatro Rossija di Mosca, di fronte a 2500 persone. Dal 1990, il marchio diviene di proprietà della società Xines, che fa capo a Giada Ruspoli, mantenendo in capo alla stilista in persona la supervisione del prodotto a cominciare dalla fase creativa. Nel 1996, la casa editrice Longanesi ha pubblicato la sua autobiografia dal titolo Dalla Russia alla Russia.
Dulcis in fundo, nel 2002 sfila all’Art Café di Roma la nuova collezione haute couture Irene Galitzine, disegnata da Massimo Stefanini, stilista umbro, laureato in architettura e con una lunga esperienza come costumista teatrale. Ancora una volta il patrimonio del creatore trova validazione e consacrazione nello stile Galitzine, proponendo un’heritage ispirazionale: si tratta, in questo caso, di capi importanti, in velluto di seta e pizzi preziosi, ricamati in oro o arricchiti da frange. I colori sono decisi, molto nero, rosso scuro, marrone, affiancati da più tenui ècru e rosa cipria. Completano la collezione colbacchi in visone e preziosissimi bijoux interamente realizzati a mano.
Lo stile Galitzine non si smentisce nei suoi tratti caratteristici: riesce a proporre attraverso linee, fogge e tagli, tempi e luoghi, un’epoca e un insieme di vissuto. I suoi sono sempre stati abiti che hanno saputo emozionare e spingersi oltre la mera vocazione stilistica, portando con sé valore e significato, capisaldi di una storia pronta ad essere proiettata a gran forza nel futuro. 

PEOPLE_Maurizio Galimberti: la fotografia che diviene mosaico

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Fotografo italiano, Maurizio Galimbertirimane profondamente influenzato dallo studio delle ricerche delle avanguardie storiche: una passione che lo spinge ad approcciarsi con spirito critico al mondo della fotografia, facendo parte del Gruppo Abrecal diretto da Nino Migliori. Sperimenta l’utilizzo della pellicola polaroid a sviluppo immediato e ne diviene un esperto manipolatore proponendosi, da semplice appassionato, come un grandioso interprete. Affinando la sua arte fotografica scatto dopo scatto, si segnala su diverse riviste del settore come Fotografare e Fotopratica e, nel 1992, vince il prestigioso Grand Prix Kodak per la pubblicità italiana. Ideatore della Polaroid Collection Italia, diviene testimonial del marchio, realizzando importanti progetti di ritratto in grande formato 50x60 alla mostra del cinema di Venezia dal 1996 al 1998 e al Festival di Sanremo nel 1997 e 1998, e, in tempi più recenti, della Fuji Instant, proponendosi in numerosi workshop e in diverse conferenze.
Pubblica su Time Magazine, Class, Max, Vogue, Vanity Fair, Cartier Magazine, Kult e per la Giorgio Mondadori Editore. Innumerevoli le mostre personali che ne hanno celebrato la cifra stilistica in tutto il mondo, accompagnate da importanti cataloghi come Polaroid e dintorni, Viaggio in Italia, Pro-Art, Un mondo ri-composto, Istantaneo Luigi Veronesi. Nel 2003, collabora con una serie di immagini inedite al volume Il fotografo, mestiere d’arte di Giuliana Scimè, edito da Il Saggiatore. Nel numero di maggio del 2000 la rivista Immagini gli dedica un numero monografico.
Maurizio Galimberti non di ferma mai: lavora nella pubblicità e al tempo stesso nella foto architettonica e in quella di moda. Svolge le sue ricerche attraverso immagini panoramiche, realizzate con una fotocamera Widelux, nonché per mezzo delle famose composizioni a mosaico, con cui immortala paesaggi e compone ritratti di importanti personaggi del mondo della cultura, dell’arte e della moda.
Una passione, la sua, per la ritrattistica, che l’ha portato a essere il primo fotoritrattista italiano nella classifica stilata dal mensile Class. Ultimamente ha realizzato diversi progetti, che, ça va sans dire, spaziano negli ambiti da lui più amati: per Edizioni Condé Nast “Vogue Gioiello” ha creato nel settembre 2006 un volume speciale sui profili dei personaggi dei gioiellieri italiani; per Keracoll Design, il libro New York Materico-movimentosa; per Fiat Auto, Viaggio in Italia…Nuova Fiat 500.
A fianco la carriera accademica, che lo vede impegnato nei più importanti istituti di design e gli consente di trasmettere oltre le immagini il senso del suo stile. Uno stile inconfondibile, quasi da pioniere, che scruta ed esamina, documentando e immortalando un’epoca. 

LEISURE_World Press Photo 2013

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Una contaminazione che dimostra di non avere confini quella tra fotografia e giornalismo, rinnovando, di anno in anno, il tradizionale appuntamento con il prestigioso riconoscimento World Press Photo.
Dal 1955 una giuria di esperti, scelti tra i personaggi più accreditati della fotografia internazionale, si riunisce per valutare le immagini inviate alla World Press Photo Foundation di Amsterdam: migliaia di scatti provenienti da ogni parte del mondo, proposti da fotogiornalisti, agenzie, quotidiani e riviste.
Il Premio è uno tra i più importanti nell’ambito del fotogiornalismo: vengono esaminate, infatti, le immagini più forti e significative di un intero anno, chiamate a riproporre in pochi istanti un’epoca, quintessenza di luoghi e precisi istanti, con tutta la loro carica valoriale e fattuale.
Le fotografie premiate nelle nove categorie tematiche vengono pubblicate nel prestigioso catalogo e rese protagoniste, senza alcuna censura, di mostre itineranti presso importanti gallerie e musei (100 città in 45 diversi Paesi quest’anno). Un’occasione unica grazie alla quale ammirare le immagini più belle e rappresentative che hanno accompagnato, documentato e illustrato gli avvenimenti dell’ultimo anno sui giornali di tutto il mondo.
La mostra, pertanto, diviene un documento storico che permette di rivivere gli eventi cruciali: il suo carattere internazionale, le migliaia di visitatori e l’interesse suscitato nel pubblico (specialistico e non), sono la dimostrazione del potere delle immagini di trascendere le differenze culturali e linguistiche per raggiungere livelli altissimi e immediati di comunicazione.
Teatro privilegiato ad ospitare la tappa italiana fino al 2 giugno, come vuole la tradizione, sarà la Galleria Carla Sozzani di Milano.
Ad aggiudicarsi il riconoscimento “Foto dell’anno” è stato il fotografo svedese Paul Hansen con la fotografia scattata per il giornale svedese Dagens Nyheter, che mostra il funerale di due bambini palestinesi uccisi in un attacco missilistico israeliano. Nell'immagine si vede un gruppo di uomini che trasporta i due corpi in una strada stretta a Gaza. Le vittime, fratello e sorella, sono avvolti in un telo bianco e si vedono soltanto i volti.La forza della foto, spiega Mayu Mohanna, membro della giuria originario del Perù, "sta nel modo in cui mostra il contrasto fra rabbia e dolore degli adulti da una parte e innocenza dei bambini dall'altra".


La World Press Photo Foundation, fondata nel 1955, è un’istituzione internazionale indipendente per il fotogiornalismo, senza fini di lucro con sede in Olanda.
Scopo principale della Fondazione è l’organizzazione dell’omonimo concorso e della relativa mostra. Ogni anno viene pubblicato in sei lingue un catalogo che presenta i lavori premiati.
La Fondazione, inoltre, cerca di riunire i migliori fotografi internazionali per dar loro la possibilità di discutere sui principali temi di attualità legati al fotogiornalismo. Ogni anno la premiazione viene preceduta da proiezioni e seminari sulla fotografia, con l’intervento di numerosi esperti di settore. Un’occasione che permette a fotografi, picture editors e giornalisti provenienti da tutto il mondo di incontrarsi. L’indipendenza della Fondazione, la rende un efficace e libero ponte tra persone provenienti da situazioni e realtà diverse.
La World Press Photo Foundation è attiva anche nei paesi emergenti e del terzo mondo dove diffonde le leggi del copyright nella commercializzazione della fotografia, la visualizzazione e l’editing dei servizi fotogiornalistici. Ha inoltre organizzato seminari in diversi paesi, tra cui Bosnia-Erzegovina, Bangladesh, Argentina, Perù, Colombia, Brasile, Zimbabwe, India con l’intento di contribuire allo sviluppo di società più democratiche e rispettose dei diritti d’informazione. Questi seminari sono una delle attività fondamentali della Fondazione. Dal 1994 propone un’iniziativa di alto contenuto formativo: il Joop Swart Masterclass, un corso gratuito di perfezionamento, aperto a giovani fotografi selezionati da una giuria di esperti del settore. Il corso è tenuto in autunno ad Amsterdam da insegnanti qualificati in diverse discipline legate al fotogiornalismo.


World Press Photo
Fotografia e giornalismo: le immagini premiate nel 2013
Galleria Carla Sozzani, Corso Como 10 – Milano

Dal 5 maggio al 2 giugno 2013
martedì, venerdì, sabato e domenica, ore 10.30 – 19.30
mercoledì e giovedì, ore 10.30 – 21.00
lunedì, ore 15.30 – 19.30

LEISURE_Un nuovo concetto di boutique chez Louis Vuitton

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Debutto estivo celebrato a pieno ritmo chez Louis Vuitton, che, per l’occasione, ha aperto il primo pop-up store in Italia e, per la precisione, a Forte dei Marmi. Una location ideale per valorizzare l’esclusività e il prestigio degli articoli della Maison, enfatizzandone, al contempo, lo stile alla base della loro ideazione e realizzazione. Uno stile che abbraccia totalmente le abitudini e i rituali di chi sceglie il marchio quale inseparabile compagno di vita e d’avventure.
Un negozio che diviene un luogo unico e ineguagliabile, in cui assaporare l’impronta Louis Vuitton, tripudio di ispirazioni, suggestioni e sogni. Tutto si declina su orme visionarie, che invitano all’immaginifica scoperta di orizzonti e tempi inesplorati. Un luogo-non luogo, che sposa pienamente la filosofia della Maison, esaltandola nei tratti peculiari e offrendone un ritratto particolareggiato, ingrandito dalle lenti di un attento scrutatore, interessato a spingersi oltre la realtà apparente, senza tralasciare di celebrare, al contempo, la vocazione vacanziera della località che lo accoglie.
In un ambiente appositamente disegnato pe riflettere il clima accogliente della località balneare e il sapore delle vacanze estive, complice una luminosa e brillante atmosfera, trova valorizzazione una selezione di pelletteria, accessori (cinture, tessili, bijoux e occhiali da sole) e calzature.
Il concept architettonico, in accordo con il desiderio di Louis Vuitton di rendere ogni negozio unico, rende omaggio allo stile di vita della Versilia. Pregiati materiai naturali, colori neutri, un’eleganza semplice e raffinata sono i tratti distintivi. Il negozio, che si inserisce nel contesto di una nuova esperienza di vendita e di sofisticazione del servizio offerto al cliente, sarà animato periodicamente con prodotti che incarnino lo spirito estivo rilassato e piacevole, oltre ad offrire un’ampia gamma di borse, accessori ed articoli da viaggio continuativi.
Per l’apertura, Louis Vuitton ha creato una versione esclusiva ed in edizione limitata della borsa cult Neverfull - la Neverfull Resort Forte dei Marmi - realizzata in tela Monogram e decorata con la scritta vintage Forte dei Marmi e l’indirizzo del negozio. L’interno in tela a righe arancione presenta una grande tasca con zip ed una pochette per contenere l’indispensabile per una giornata sulle spiagge delle Versilia: crema solare, occhiali da sole, infradito e telo mare. La Neverfull Resort sarà in vendita a partire da giugno solo ed esclusivamente a Forte dei Marmi.
Aperto al pubblico fino a dicembre, il negozio pop-up “Summer Resort” di Forte dei Marmi rappresenta una nuova destinazione nell’arcipelago Louis Vuitton nel Mediterraneo: Mykonos, Capri, Portofino, Palma de Mallorca, Puerto Banus e Porto Cervo, ognuna location simbolo di glamour vacanziero.

Louis Vuitton Forte dei Marmi

Via Giovanni Montauti 3/B - 55042 Forte dei Marmi
Tel.: 0584 784110

Orari di apertura: Tutti i giorni 10.00 - 14.00 e 15.00 - 20.00


LOUIS VUITTON
Fondata nel 1854 a Parigi, Louis Vuitton è da sempre sinonimo dell’Arte del Viaggio. Gli iconici bauli, bagagli e borse hanno accompagnato numerosi viaggiatori nel corso degli anni. Con l’arrivo di Marc Jacobs, come Direttore Artistico nel 1997, Louis Vuitton ha esteso il proprio savoir-faire all’abbigliamento, alle scarpe, agli accessori, agli orologi ed ai gioielli, disponibili esclusivamente nei negozi della Maison presenti in più di sessanta paesi nel mondo. In Italia Louis Vuitton ha 18 negozi oltre al servizio di e-commerce.

ABOUT_La Triennale di Milano compie 80 anni

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Correva l’anno 1923…veniva fondata l’istituzione culturale che, nel tempo, sarebbe diventata una tra le più importanti del nostro Paese, vuoi per il plauso di dare pregio all’Italia a livello sia nazionale che internazionale, vuoi per la capacità di attrarre personaggi legati al mondo dell’arte tout court ma non solo, divulgando quel tanto agognato discorso di contaminazione tra diverse le forme espressive artistiche. Fondata a Monza nel 1923 in occasione della I Biennale delle arti decorative dell’ISIA e su istanza di Guido Marangoni, la Triennale nel 1933 viene trasferita a Milano negli spazi del nuovissimo Palazzo dell’Arte di Giovanni Muzio, realizzato grazie al lascito testamentario dell’industriale tessile Antonio Bernocchi.
Pertanto, sin dai suoi primi passi, mostra tutti gli ingredienti con cui cavalcare l’onda del dialogo tra le arti, nel rispetto di un’ottica di reciproca e sana influenza, condizione indispensabile per la miglior resa formale e di contenuti nonché per il progresso intellettuale della società. Spaziare nei vari ambiti della cultura diviene la vocazione divinatoria della Triennale, che nei decenni ha sempre operato nella realizzazione di mostre, convegni ed eventi dal respiro internazionale e volti a offrire la più ampia configurazione possibile dell’universo artistico.Arte, design, architettura, moda, cinema, comunicazione e società le tematiche attorno alle quali ha incentrato la sua attività, riuscendo a ritagliarsi un ruolo di spicco e universalmente riconosciuto nel mondo della cultura a tuttotondo. Le mostre che organizza godono della massima visibilità, ponendo al centro dell’attenzione l’arte contemporanea così come profili di architetti, designer e stilisti di fama mondiale: in altre parole, tutto ciò – fatti o persone – che hanno contribuito in maniera indelebile al cambiamento della società.
Guidata dal faro dell’intelletto, ha sempre puntato a stimolare l’interazione tra industria, mondo produttivo e arti applicate, evidenziando come la totale validazione dipenda da un’intrinseca affermazione e, successivamente, da un’autentica sinergia di competenze, visioni e approcci diversi. Sulla scia di queste considerazioni e per la sua vocazione a creare un contesto nuovo per le abitudini italiane, negli anni ha assunto un ruolo da amplificatore mediatico, catalizzando l’attenzione e l’approvazione delle diverse correnti culturali che man mano sono andate sviluppandosi.
Sin dal suo esordio milanese, svetta per la sua inclinazione all’innovazione: un’innovazione che risiede nel mondo in cui affronta l’arte e la rimanda al pubblico, coinvolgendolo in esperienze inedite per il tempo, quintessenza di emozione, suggestione, ispirazione, viaggio e immaginazione. Un contesto e un luogo nuovo, che cattura gli sguardi di approvazione di personaggi del calibro di Giorgio De Chirico, Mario Sironi, Massimo Campigli e Carlo Carrà, che decidono di prendervi parte con le loro opere. Un occhio privilegiato sulla realtà contemporanea, quello della Triennale, che l’ha vista protagonista anche negli anni del dopoguerra e della ricostruzione post-bellica, assumendo un ruolo fondamentale nella realizzazione del quartiere milanese QT8. Un’esperienza che l’ha portata a sviluppare un interesse nei confronti della pianificazione urbanistica e le innovazioni tecnologiche applicate all’edilizia al punto di farle diventare uno dei temi prioritari degli anni ’50.
Il suo approccio trasversale all’arte contemporanea, l’ha portata nel 2007 ad ospitare il Triennale Design Museum, il primo museo dedicato al design italiano nelle sue molteplici espressioni, che cambia veste annualmente, ponendosi quale summa esemplificativa illustrata della storia e del sistema design.Qui vi trovano valorizzazione imprese, distretti produttivi, territorio, ricerca, editoria e formazione: aspetti di per sé eterogenei, ma legati da uno spirito di comune, ossia di studiare e interpretare la realtà che ci circonda con spirito critico al fine di coglierne le effettive influenze e sublimarle nel modo più opportuno e consono a renderne l’essenza profonda. Vi sono pezzi di noi e della nostra vita, che hanno scritto un’epoca, traghettandola nella memoria dei posteri quale emblema di eccellenza culturale, artistica e produttiva. Grazie al suo dinamismo e continuo mutamento, offre al visitatore un occhio privilegiato e percorsi tanto inediti quanto diversificati che si addentrano nei meandri del design made in Italy, esplorandolo negli aspetti spesso meno noti o celebrati. Anche il museo, come la Triennale, associa l’aspetto più scientifico e rigoroso a un approccio altresì emozionale e coinvolgente, che non tralascia di evocare suggestioni e ispirazioni nel visitatore. Rispondendo alla semplice domanda “Che cosa è il design italiano”, ogni anno cambiano gli oggetti esposti e le tematiche trattate nonché la cornice scenica che li ospita e li esalta nel massimo delle loro potenzialità e il programma di eventi collaterali che indagano le sfumature più recondite. Fino ad oggi, cinque sono state le edizioni che si sono avvicendate: “Le sette ossessioni del design italiano”, “Serie e fuori serie”, “Quali cose siamo”, “La fabbrica dei sogni”, “TDM5 Grafica italiana”.
 Ma se è vero che la contaminazione è il principio alla base dell’occhio indagatore della Triennale, dal 2011 l’istituzione ospita il Teatro dell’Arte, nuovo punto di riferimento per progetti culturali e arti performative tra i più significativi della scena milanese. Progettato da Giovanni Muzio e situato al piano seminterrato, il teatro da subito ha adottato il filone del centro culturale piuttosto che di spazio fine a se stesso, sposando il concetto consolidato nel resto del mondo di luoghi virtualmente flessibili, adattabili a tutti gli usi, anche simultaneamente: in tal modo, è garantito un vero e proprio palcoscenico da consacrare alla narrazione dell’arte, del design e della cultura.
Last but not least, la Biblioteca del progetto, l’ennesima conferma della multidisciplinarità alla base del quotidiano operato della Triennale. Inaugurata nel marzo 2005, è la sede istituzionale di ordinamento, raccolta e incremento di materiali cartacei e plastici, di modelli e audiovisivi prodotti dalla stessa Triennale di Milano presso il Centro di Documentazione (ex Centro Studi Triennale) e l’Archivio Storico. La collezione, che conta circa 14000 volumi, si è arricchita nel tempo grazie al contributo di numerosi fondi privati. Al lascito iniziale di Augusto Morello di circa 7000 volumi di arte, architettura, design ma anche filosofia ed estetica, si sono progressivamente aggiunti quelli di Casa Vogue, il fondo di Alessandro Mendini, la preziosa raccolta di Tomàs Maldonado e il fondo Architectura & Natura. La raccolta della Biblioteca del Progetto comprende anche il Centro di Documentazione (ex Centro Studi Triennale) composto dai cataloghi delle esposizioni e delle mostre e dalle altre pubblicazioni ufficiali.
Dulcis in fundo, sin dal 1923 l’istituzione ha mantenuto la buona abitudine di assegnare agli espositori premi e medaglie a testimonianza della qualità dei prodotti e dei lavori presentati. Abbandonata nel 1973, è stata poi ripresa nel 2003. Da quanto è stato reintrodotto, il Premio Medaglia d’Oro con cadenza triennale ha celebrato i seguenti progetti: Umberto Riva con PierPaolo Ricatti, Magazzino Fincantieri, Castellammare di Stabia, Napoli (2003); Renzo Piano Building Workshop (RPBW), Hight Museum of Art, Village of the Arts, Woodroof Arts Center Atlanta, Stati Uniti (2006); Massimiliano & Doriana Fuksas, Zenith Music Hall, Strasburgo (2009); Vincenzo Latina, Padiglione di accesso agli scavi dell’Artemision, Siracusa (2012).
Vista la fervida attività e l’impegno profuso alla valorizzazione dell’arte e del design in tutte le loro forme d’espressione, viene da dire “80 anni e non sentirli”. Tanto che per festeggiarli, la Triennale ha programmato quattro giornate di mostre, appuntamenti e concerti, che ne ripercorrono la storia e i lustri, animando gli spazi come vere e proprie attrattive. Dal 10 al 12 maggio il pubblico può visitare l’esposizione dell'Archivio Storico, che presenta il racconto per immagini della storia dell'istituzione; le oltre 100 opere dalle collezioni del MAGA dopo l'incendio; la mostra Pianeta Expo 2015 che presenta i contenuti dell'Esposizione Universale e Collateral Landscape. Due presentazioni, la nuova mappa a volo di uccello del centro storico di Milano e il progetto di valorizzazione della scultura lombarda del '900 Fondarterritorio con l'inaugurazione delle sculture di Angelo Bozzola e Carlo Ramous entrate a far parte della Triennale. La Run4T al suo secondo appuntamento con la corsa nel parco Sempione, concerti jazz al Teatro dell'Arte, e per bambini due laboratori e un concerto. Tutte le sere aperitivi musicali al Triennale DesignCafé all'aperto con performance dal vivo.

Triennale di Milano
Via Alemagna 6, Milano 

PEOPLE_Jole Veneziani: testimone e protagonista della moda italiana

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Jole Venezianiè tra le fondatrici della moda italiana tout court, avendo partecipato, tra i pochi eletti alla corte di Giovanni Battista Giorgini, alla prima sfilata presso Villa Torrigiani a Firenze il 12 febbraio 1951. Chiave di volta per lo stile del Belpaese universalmente noto, ha avuto un ruolo cruciale negli anni ’50 e ’60 per la definizione concettuale – e quindi strutturale – del costume, segnandone in maniera indelebile la storia.
Una vicenda, la sua, in cui gli aspetti umani hanno trovato una felice convivenza con quelli professionali, dando vita a un ideale sodalizio, quintessenza di personalità, passione e devozione. Emblematico per il tempo, come per oggi, il suo ruolo, che ha denotato la centralità dell’imprenditorialità femminile per la nascita, il successo e il consolidamento della moda italiana con tutti i tratti peculiari di quell’epoca:l’affermazione nella produzione di nicchia per un mercato urbano, il debutto sui mercati internazionali, la diversificazione della produzione, l’alleanza con l’industria tessile e della confezione. La moda, in altre parole, muoveva i suoi primi passi e Jole Veneziani l’accompagnava per mano, tenendola a battesimo e curandone il debutto in società.
Nata nel 1901 a Leporano, vicino a Taranto, vorrebbe seguire le orme della madre, appassionata di opera, ma alla morte precoce del padre avvocato abbandona i sogni artistici e si impiega in un’azienda francese di pellami e pellicceria. Diviene presto pratica del mestiere al punto da trasformarsi in esperta conoscitrice delle materie prime, del prodotto e delle sue tecniche di lavorazione. Prima della guerra è a Milano, dove la famiglia si è trasferita nel 1907 e dove nel 1938 apre il laboratorio di via Nirone, da cui escono le pellicce che attraggono l’attenzione delle sartorie di Alta Moda per la leggerezza, la qualità e la competenza con cui sono lavorate. Introduce innovazioni che si rivelano illuminanti per il settore, segnandone inesorabilmente l’evoluzione. A lei il plauso di aver esteso l’utilizzo della pelliccia a capi di abbigliamento tradizionalmente realizzati in tessuti, come i tailleurs, aprendo così nuove frontiere dello stile e trasformando la pelliccia da mera espressione di lusso conservatore in un materiale eccezionale e versatile, oggetto di continue tecniche di sperimentazione e innovazione.
Nel 1944 è la volta dell’apertura dello storico atelier di via Montenapoleone 8, dove vi rimane fino al suo ritiro quarant’anni più tardi. Qui sviluppa e articola la sua attività, allargando la produzione dalla pellicceria alla sartoria e muovendo i primi passi verso quella che assumerà i tratti di una graduale diversificazione, contemplatrice di accessori, profumi e linee diverse in grado di soddisfare le più disparate esigenze (Jole Veneziani, dedicata ai giovani, Veneziani Sport, Veneziani Arven, Veneziani Universal). Uno slancio creativo inarrestabile, precursore del contemporaneo total look, in grado di coinvolgere e inglobare i molteplici aspetti che riferiscono allo stile di una persona per interpretarli, studiarli e renderli in una chiave nuova ed esaustiva, coerente nelle linee di fondo e di gran carattere negli aspetti più formali.
Dopo la celeberrima sfilata della Sala Bianca, Jole Veneziani di diritto è proietta nell’olimpo dei divini, che ideano e creano l’eleganza con tanto di regole di stile, conquistando a gran voce plausi da tutto il mondo: il 4 febbraio 1952, il settimanale americano Time, nel commentare la sfilata di Palazzo Pitti, la esalta per la sua generosa partecipazione all’evento con una collezione di 130 capi di abbigliamento, per lo più sportivi, contrapponendola ai colleghi che avevano optato per una risicata selezione. Jole era così: partecipava con passione a tutto quello che faceva, dando il meglio di sé e guardando sempre oltre. Nel 1953 le cronache delle sfilate fiorentine la annoverano fra gli innovatori che sperimentano l’impiego delle fibre sintetiche nell’Alta Moda: un primo abbozzo di collaborazione industriale che, negli anni a venire, diventerà una costante, portandola a sviluppare partnership con importanti realtà. Antesignana di mode, fenomeni e tendenze, nel 1957, insieme a Germana Marucelli e Eva Sabatini – le altre due voci più importanti dell’Alta Moda milanese del tempo – propone abiti che anticipano gli eventi del decennio successivo: caratterizzati da una foggia che prescinde dalla forma naturale del corpo fino a mancare quasi completamente di progettualità, rappresentano la versione milanese della linea Sacco presentata a Parigi da Christian Dior in quello stesso anno, focalizzata su una struttura minimal.
All’inizio degli anni Sessanta, quando i segnali delle difficoltà economiche in cui si dibatte l’Alta Moda incominciano a farsi sempre più evidenti e rapidamente si appanna la sua funzione sociale e culturale, Jole Veneziani tenta di dare il proprio contributo al rinnovamento dell’Alta Moda milanese, presentando abiti che propongono l’accostamento di elementi contrastanti, come l’abito da sera in tweed a trama grossa con strascico. La conclusione del decennio segna l’inizio del suo declino, coincidente con l’apice raggiunto dai movimenti di contestazione che si raccolgono davanti alla Scala di Milano in occasione dell’apertura della stagione teatrale e che prendono di mira proprio le sue pellicce.
Eletta nel 1980 tra le “persone che hanno fatto grande Milano”, con tanto di mostra, monografia (a cura di Edgarda Ferri) e medaglia d’oro (opera dello scultore Pomodoro), nel 1989 se ne va, circondata dal calore del capoluogo meneghino che ha visto muovere i suoi primi passi e affermarsi il suo stile.
Numerosi i premi e i riconoscimenti ricevuti nel corso della sua carriera tra i quali: i due Oscar della critica della Moda per la migliore collezione; il Giglio d’oro della Moda (1952); la medaglia d’oro dal Museo di Philadelphia per un abito presentato a Los Angeles (1953); l’Oscar della calzatura (1969); il premio La trama d’oro (1971); il titolo di Cavaliere al merito della Repubblica e, successivamente, quello di Ufficiale della Repubblica (2 giugno 1972); l’Ape d’Oro, riconoscimento alla imprenditorialità (1973); il premio Oscar Internazionale per l’Alta Moda Pellicceria: la Maschera d’Argento (1974); l’Ambrogino d’Oro

ABOUT_Christian Dior: savoir, faire, vivre

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Habiter une maison qui ne vous ressemble pas, c’est un peu comme porter les vêtements d’un autre” era solito affermare Monsieur Christian Dior. Per lui, infatti, era vitale che vi fosse una corrispondenza tra gli spazi abitativi e la propria personalità, così come tra essa e gli abiti indossati.Una concezione artistica e architettonica, alla base di ogni sua ispirazione, sia nella moda che fuori.È così, quindi, che si scopre un’ulteriore vocazione del grande couturier, devoto al bello in tutte le sue accezioni.
In particolare, Monsieur Dior non ha mai nascosto il forte attaccamento alla casa d’infanzia, fortificazione di ideali e valori per lui fondamentali per la definizione del suo particolare percorso creativo. Un ricordo tenero e, al tempo stesso, meraviglioso, che l’ha accompagnato per mano nel cammino della vita, segnandolo in maniera inequivocabile.
A fianco della vocazione sartoriale, egli non ha mai perso di vista la fascinazione per l’architettura: il gusto per le dimore e la decorazione, il senso de l’art de vivre e la passione per i quadri, ne hanno forgiato lo spirito, inducendogli il culto del confort, del benessere, della convivialità, del saper vivere…in poche parole, di uno stile di vita raffinato e a lui ampiamente famigliare in quanto sperimentato proprio negli anni della sua infanzia.
Uno stile di vita che ha traghettato nel côté creativo, cominciando proprio con l’emblematico indirizzo parigino: 30 Avenue Montaigne. Nella sua Maison, egli ha trasferito dettagli precisi e meticolosi, gli stessi che si possono ritrovare nei suoi abiti, generando una perfetta commistione tra couture e personalità. Qui convivono lo stile e i colori che hanno caratterizzato il periodo della sua infanzia trascorso nella Ville Lumière: si tratta di un neo Luigi XVI, tipico degli anni compresi tra il 1900 e il 1914, tripudio di boiserie bianche, mobili laccati bianchi, tinture grigie, porte in vetro intagliato.
Con i guadagni iniziali, Monsieur Dior compra la sua prima casa, il mulino di Coudret, vicino Milly-la-Forêt: una vera dimora rurale, nata dalla terra e per la terra, per la vita dei campi, simile a quella in cui era solito trascorrere brevi periodi visitando i parenti. Il mulino diviene ben presto il suo buen retiro, in cui trovare ispirazione per le collezioni nonché rifugio adorato dai suoi amici: Raymonde Zehnacker, Mitza Bricard, André Levasseur, Marlene Dietrich, Jean Cocteau, René Gruau. Una volta affermatosi come couturier, Dior capisce che è ora di cambiare indirizzo, trovandone uno consono al suo nuovo status. Opta per un hotel particulier, situato in boulevard Jules Sandeau, contemplato dallo stilista in tenera età dalla casa dei nonni poco distante. “Riconobbi il balcone con le colonne, che tanto aveva incantato i miei anni giovanili…aveva un giardino d’inverno dove vidi, insieme, piante e fiori particolari come le kentia e le peonie di Granville”. Questo spazio diventa per Christian Dior la quintessenza delle sue preferenze in termini di gusto, su cui troneggiano la moltitudine cromatica e le tele di Matisse. Qui è solito ricevere i suoi amici– Laurence Olivier, Vivien Leigh, Henri Sauguet, Francis Poulenc, Boris Kochno, Denise Tual – attorno a un tavolo, servendo loro menu e pietanze curate personalmente.
Acquista, inoltre, la proprietà della Collina Nera, vicina a Callian. Un luogo unico nel suo genere, ideale per ritirarsi un giorno, ritrovando, sotto altre spoglie, il giardino che ha protetto (e influenzato) in maniera indelebile la sua infanzia. Un sogno che, purtroppo, resterà tale. Tuttavia, questa dimora, attorno alla quale il couturier in persona aveva dato vita a vigneti, come tutte le altre diviene per lo stesso l’inizio della tanto idolatrata ricerca dei ricordi e della creazione di quell’idillio giovanile.
Così, come i suoi abiti rinnovano ogni giorno quello slancio vitale verso una femminilità eterna e una sensualità rivisitata, allo stesso modo le sue dimore non sono tanto rivolte verso il futuro quanto a un fedele recupero di un paradiso perduto.
È così che Christian Dior rivela il suo lato proustiano, che vede nella ricerca del tempo perduto l’ideale di uno stile di vita da riproporre nel futuro, prendendone le peculiarità e donando loro una magica eternità protratta oltre ogni umano limite. 

PEOPLE_Germana Marucelli, la donna che ha anticipato la moda

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Germana Marucelli, stilista e sarta, è stata l’antesignana di quella moda italiana divinamente slegata dai dettami e delle influenze d’oltralpe. Una moda che rifletteva - e riflette tuttora – quelle caratteristiche inconfondibili quali artigianalità, savoir-faire, stile, raffinatezza e qualità, combinate con aspetti più pratici e confortevoli che consentono di sposare situazioni informali con il medesimo glamour destinato alle circostanze più rigorose e formali.
Insieme ad Elsa Schiaparelli è stata fra i pochi a cogliere la necessità di uno stretto rapporto tra moda e arte, tanto da essere arruolata ufficialmente nella compagine che il 12 febbraio 1951 prese parte alla celeberrima sfilata della Sala Bianca, organizzata da Giovanni Battista Giorgini. Germana Marucelli vi partecipa forte della sua tradizione ed esperienza sartoriale: il suo atelier milanese, infatti, poteva vantare già una certa celebrità, rappresentando non solo un luogo di moda e alla moda, ma anche un salotto artistico-letterario, crocevia di personaggi e cultura, dove il giovedì si riunivano poeti come Quasimodo e Montale, gli intellettuali più in vista del momento, architetti estrosi e versatili come Giò Ponti, pittori del calibro di Savino, Casorati, Gentilini e Campigli.
Donna dal profilo battagliero, intraprendente e determinata, ferma nelle sue idee e impermeabile alle correnti della moda spettacolo, aveva una passione smodata per le contaminazioni artistiche, reputandole alla base di una resa formale perfetta e, al tempo stesso, lungimirante, che sapesse quindi spingersi oltre la realtà apparente per scovare il significato più profondo di stili, tendenze, reminiscenze e tradizioni. Un amore respirato ed ereditato dalla famiglia, essendo figlia d’arte: la madre sarta a Settignano (suo paese natio), la zia Failla sarta famosa a Firenze. Da entrambe trasse insegnamenti e ispirazioni, lavorando nelle rispettive botteghe. In seguito è stata anche modellista, acquistando modelli e tele a Parigi per rivenderli alle sartorie italiane. Aveva un occhio e una memoria infallibili, grazie ai quali realizzava creazioni uniche sulla base di altre già esistenti.
Nel 1938 si trasferì a Milano, dopo aver diretto la sartoria Gastaldi di Genova e aprì un piccolo atelier in via Borgospesso, da cui però dovette sfollare a causa dei bombardamenti. Vi ritornò nel 1945, consolidando la propria visione dell’abito, che per lei divenne una vera e propria architettura, quintessenza di pittura (per il colore) e scultura (per la forma), in perfetta armonia con la donna persona.
Complice il fermento artistico del quale adorava circondarsi, nel 1947 con fervida lungimiranza anticipò il New Look, lanciato in seguito da Fath e Dior, e più tardi la linea Pannocchia, ossia il sacco parigino.Supportata dall’industriale Franco Marinotti, fondatore della Snia Viscosa, rilevò mura e archivio della storica sartoria milanese Ventura. Proprio in questi anni consolidò la sua alleanza con l’arte, entrando in contatto con personaggi del calibro di Capogrossi, Zuffi e Alviani: alle loro sperimentazioni cinetico-visuali si ispirò per abiti a corazza e a scudo, realizzati in leggero alluminio, anticipando così, ancora una volta, la moda che verrà e, in particolare, quella di Paco Rabanne. Un’alleanza di ispirazioni ma anche di lavoro: ogni collezione risultò essere la perfetta combinazione tra arte rinascimentale e avanguardia. Dalla linea Impero (1951) che guardava a Botticelli a quella Fraticello che puntava l’attenzione sulle delicate cromie del Beato Angelico, era un continuo andirivieni di reminiscenze artistiche e di costume, in un’armonica alternanza di valorizzazione e validazione. Un’arte a tuttotondo, che influenzò la sua moda in maniera inequivocabile: nel 1968 fu la volta della scultura e in particolar modo di Manzù, chiamato a dare suggestioni per la linea Vescovo. E poi ancora Mirò e Picasso per la collezione Astratta.
Germana Marucelli è stata una delle poche persone in grado di ideare, progettare e creare seguendo un fil rouge capace di coniugare, in un clima vivace come quello dell’epoca, ricerca intellettuale, pensiero e messaggio estetico. Negli anni ’70, quando Milano divenne capitale del prêt-à-porter, la sua creatività, singolare e universalmente riconosciuta, cominciò ad annebbiarsi di un alone di esclusività e di elitaria solitudine: la sua arte era troppo pura e autentica per poter mantenere e seguire il ritmo frenetico di quegli anni, la mutevolezza di sfilate e collezioni e il tamtam frenetico di una dispersione consumistica che non consentiva di soffermarsi sui dettagli salienti di un capo. Germana Marucelli, però, non abbandonò mai la sua vocazione, rafforzando la ricerca di tutte le possibili  contaminazioni tra arte e moda e realizzando abiti in perfetta sintonia con la persona, quintessenza di stile, creatività e cultura.

ABOUT_La nascita del prêt-à-porter

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Bisogna correre indietro nel tempo, fino agli anni ’40, per scovare l’origine del termine prêt-à-porter, quando, cioè, i francesi, orgogliosi della propria lingua e disposti a non cedere a qualsivoglia “infiltrazione” straniera, cominciarono a utilizzarlo per tradurre la dicitura ready-to-wear coniata negli Stati Uniti. Un linguaggio, quindi, che lasciava intendere l’influenza del processo di americanizzazione che stava per essere traghettato anche in Europa, rafforzando il concetto che la moda relegata a una reminiscenza elitaria fosse ormai una considerazione superata. Il ready-to-wear, infatti, consisteva in una moda creata appositamente per la società di massa degli Stati Uniti, che, negli anni ’30, avevano rappresentato il vero motore propulsore in grado di portar fuori dalla grande crisi. Una moda, pertanto, democratica, sinonimo di benessere diffuso e uguaglianza sociale. Proprio in quegli anni, gli Stati Uniti avevano avviato una rigida politica verso le importazioni, applicando misure restrittive su beni come i pizzi di Calais, sui quali fu applicato un dazio ad valorem del 300%, i cappelli (con incrementi che oscillavano tra il 40% e il 75%, a seconda della tipologia), i ricami, il tulle, i lamé, la seta, la pelletteria e i capi di abbigliamento in lana. A seguito di tali misure (Smoot-Hawley Tariff Act), le esportazioni francesi crollarono da 3.335 miliardi di dollari nel 1929 a 1.543 miliardi nel 1931. Seguirono dieci anni di protezionismo, conclamati dall’occupazione nazista iniziata nel 1940. Per gli Stati Uniti fu un periodo caratterizzato dalla valorizzazione delle risorse creative locali e da una notevole autonomia dai modelli di eleganza e di bellezza proposti da Parigi.
L’America acquistò sempre più spazio nella scena del costume e dello stile, tanto da offuscare quasi del tutto la figura del trend setter dell’haute couture parigina: nemmeno il successo ottenuto nel 1947 dal New Look firmato Christian Dior riuscì a mettere in discussione la leadership conquistata dal Paese che si preparava a divenire la maggiore potenza del mondo occidentale.
Uno scenario inusuale e del tutto nuovo, che lasciava ben sperare alla moda italiana un insperato vantaggio in termini di competitività ed eleganza: le creazioni del Belpaese, infatti, erano raffinate e, di diritto, vantavano una specifica identità, quintessenza di artigianalità, qualità e stile.
Iniziò così una nuova stagione per l’Italia e la moda, tanto da indurre a un aggiornamento repentino del lessico associato che vide l’introduzione di due nuove categorie di prodotti: la moda boutique e l’Alta Moda pronta.
La moda boutique, che negli anni ’50 sancì il successo delle sfilate fiorentine, rappresentava una produzione caratterizzata dalla qualità dei materiali e dall’artigianalità delle tecniche di confezione, realizzata su scala sufficientemente ampia da poter essere commercializzata anche dai grandi magazzini americani collocati nella fascia alta di mercato.
L’Alta Modapronta, invece, era costituita dalle seconde linee prodotte dalle case di Alta Moda italiane. In altre parole, erano collezioni che traevano ispirazione dalle creazioni più esclusive, semplificate e “impoverite” attraverso l’impiego di materiali più economici e il ricorso a tecniche di rifinitura e cucitura proprie della confezione in serie.
Un’ambiguità terminologica che generò una significativa confusione intorno alla definizione precisa di prêt-à-porter e alla quale si decise di porre rimedio attraverso una sorta di regolamentazione, sfociata, come si vedrà negli anni a seguire, nella riorganizzazione del calendario delle sfilate e nella loro specializzazione.
In ogni caso, moda boutique e Alta Moda pronta sottendono produzioni che appartengono alla prima fase della storia della moda italiana, decisive per assicurarle il debutto nel panorama internazionale e valide a conferirle il ruolo di riguardo che le è sempre spettato. Da lì in poi la strada è stata lunga e, soprattutto, ricca di evoluzioni che hanno affermato sempre di più la moda italiana come baluardo sulla scena del costume internazionale, divenendo sinonimo di stile, eleganza e raffinatezza. Una moda che è cambiata nei decenni, seguendo pedissequamente le evoluzioni sociali e culturali, rispondendo in tal modo al suo ruolo intrinseco di specchio della società in cui è calata e di cui è chiamata a riportare una fedele rappresentazione illustrata. Gli anni ‘80 hanno visto esplodere il fenomeno degli stilisti, protagonisti indiscussi di una nuova era per la moda made in Italy come la conosciamo oggi, contrassegnata da una totale autonomia creativa e in grado di elaborare capi d’abbigliamento e accessori universalmente apprezzati e riconosciuti.  

LEISURE_Glamour & Charity protagonisti a Milano

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Giovedì 23 maggioalle 19.00 la mondanità di Milano incontra la solidarietà. Presso il Mercedes Benz Center di Milano(via Gottlieb Daimler 1), partner ufficiale della serata, va in scena l’esclusiva presentazione in anteprima del libro “Le mie amiche dicono che…”. Un appuntamento speciale, ospitato in uno spazio prestigioso e avveniristico come quello del più grande centro del marchio Mercedes Benz nel Sud Europa e condotto da Melba Ruffo di Calabria.
Edito da Electa, il libro rappresenta il coronamento di un sogno, intrapreso e portato avanti grazie all’aiuto di 51 amiche speciali che svelano i loro indirizzi milanesi segreti, nascosti ai più e spesso anche a Internet, gelosamente custoditi e sussurrati a vicenda. Suggerimenti utili e, al tempo stesso, sfiziosi, ma soprattutto rari e preziosi, svelati eccezionalmente per sposare la nobile causa della fondazione umanitaria“City of Joy Aid” di Dominique Lapierre, attiva dal 1982 per il sostegno dei bambini che affollano le bidonville di Calcutta.
Un prezioso divano liberty da sistemare? Un’asola senza bottone proprio su quell’introvabile tailleur haute couture? Chi chiamare? Da chi andare? Di chi fidarsi ciecamente? Non c’è pubblicità o annuncio che possa convincere o rassicurare: quando teniamo davvero a qualcosa ci affidiamo sempre e solo al consiglio di chi ha provato, meglio se un amico, ancor più se fidato. Allora, perché non riunire tutti gli indirizzi utili ma ignoti alla maggior parte delle persone? Non si tratta di un inventario di negozi conosciuti ormai da tutti, ma, piuttosto, di una minuziosa raccolta di piccole realtà in grado di risolvere quotidiane seccature così come di soddisfare le esigenze più raffinate. Dal signore che riassesta elettrodomestici armeggiando con il martello alla stregua di una bacchetta magica, alla sarta che grazie al suo tocco d’oro fa rinascere il nostro abito più prezioso, maldestramente rovinato. Persone, insomma, a cui affidarsi pienamente perché già “testate” e che, di conseguenza, non esiteremmo un istante a consigliare al nostro migliore amico. Scoprirle e condividerle con chi ne trarrà altrettanta soddisfazione, pertanto, diventa un modo per ritrovare il piacere del locale e della bottega nell’epoca in cui spopola il globale.
240 pagine tutte da sfogliare e gustare con sorpresa e curiosità, come se si aprissero i taccuini privati di alcune fra le protagoniste più chic della vita meneghina di oggi. Signore milanesi raffinate e dinamiche che, oltre a svelare i propri luoghi del cuore, hanno accettato di raccontare se stesse rispondendo con entusiasmo, e anche con un pizzico d’ironia, a un divertente questionario di Proust che ne rivela tratti caratteriali e gusti personali. Le mie amiche dicono che...” diventa così un’irrinunciabile guida pratica, con la leggerezza di un diario e, al contempo, l’ambizione di svelare lo spirito easy chic, glamour e inaspettato, più nascosto di Milano, e non solo. Dal ristorante alla pasticceria più amata, fino all’insostituibile coiffeur: tutti “indirizzi must” da annotare e sperimentare per non rimanerne “mai più senza”! Il libro svela così una piccola miniera di riferimenti inediti, per stupire e per stupirsi: idee insolite, mete particolari, attività bizzarre e indirizzi culto, oltre agli immancabili coup de coeur. E ancora beauty secret, indirizzi top, vintage cult e caffè couture: location da non perdere, all’insegna di un mood ricercato, dal fascino senza tempo. Un libro da tenere sempre con sé per non perdersi nulla di una città magica che ha tanto da svelare e per essere sempre pronti ad affrontare ogni situazione con stile, eleganza e senso pratico.
Ma non solo…un piccolo gesto con cui fare del bene e adoperarsi per gli altri. Come anticipato, tutti i narratori e i redattori specialihanno contribuito alla raccolta dei fondi che saranno interamente devoluti alla fondazione umanitaria “City of Joy Aid” di Dominique Lapierre.

Fondata e finanziata dallo scrittore e da sua moglie nel 1981 in India, originariamente aiutava i bambini dei sobborghi di Calcutta sofferenti di lebbra; ad oggi opera in diversi Paesia favore delle persone più svantaggiate attraverso una rete di cliniche, scuole, centri di riabilitazione e barche ospedale.
Negli ultimi 30 anni, grazie alle royalties generate dai bestseller internazionali di Dominique Lapierre, agli introiti delle sue lezioni e alle tante donazioni spontanee dei lettori, l’organizzazione ha realizzato importanti progetti accompagnati da programmi di educazione, auto-assistenza, sviluppo rurale, emancipazione femminile, riabilitazione e ricostruzione. Ecco qualche numero: circa 9.ooo i bambini curati affetti da lebbra e da malattie causate da malnutrizione; più di 2 milioni i tubercolotici assistiti; 645 i pozzi creati per l’acqua potabile e 102 le scuole fondate; ha inoltre fornito assistenza medica a circa 5 milioni di malati nel mondo e insegnato a leggere e a scrivere alle donne di un migliaio di villaggi.
La sede dell’organizzazione è a Calcutta mentre, a livello locale, City of Joy Aid si avvale della collaborazione di organizzazioni indipendenti per lo sviluppo sociale attraverso ONG attive sul territorio: 9 in India, 1 in Guatemala, 1 in Africa del Sud e 1 ad Haiti.
Dominique Lapierre, nato in Francia nel 1931, esordisce nel 1947 con il libro Un Dollaro Mille Chilometri che diventa il primo di una lunga serie di best seller internazionale di successo cui seguono, dal 1954, in sodalizio con Larry Collins, alcuni dei libri più memorabili del 1900: Parigi brucia?, Alle 5 della sera, Gerusalemme Gerusalemme, Stanotte la libertà, Il quinto cavaliere.
La sua vita e il suo lavoro sono caratterizzati da molti incontri e decisive esperienze fin da giovanissimo, a partire da Un Dollaro Mille Chilometri, il racconto di un’avventura che inizia a 17 anni quando lascia Parigi con soli 30 $, lavora a bordo di una nave, sbarca negli Stati Uniti e viaggia per 30.000 miglia lungo il continente Americano. Da allora vita e letteratura sono state un susseguirsi di nuove storie ed esperienze.
Dopo aver fondato nel 1981 City of Joy Aid, Dominique Lapierre rimane oltre due anni a Calcutta per visitare i suoi "figli" raccontando quest'esperienza in La città della gioia: questo libro, che è diventato anche un film, ha venduto oltre otto milioni di copie eracconta la storia dell'epica sopravvivenza della popolazione di uno dei sobborghi più poveri dell'India.
A Calcutta Dominique Lapierre diventa un intimo collaboratore di Madre Teresa, che gli concede l'esclusiva per un film sulla sua vita e sul lavoro delle sue sorelle, Le Missionarie della Carità, con protagonista Geraldine Chaplin. Nel 1991 lo scrittore ha pubblicato Più grandi dell'amoree nel 1997 Mille Soli, una cronaca dei personaggi e degli eventi che hanno plasmato la sua vita da filantropo. L'ultimo romanzo, Mezzanotte e cinque a Bhopalè il vero e proprio reportage di una tragedia annunciata.
I suoi scritti sono stati premiati con il prestigioso Humanitas Prizeper gli alti valori morali comunicati.

LEISURE_A Glimpse at Photo Vogue: fotografia, arte, moda, cultura

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A gran voce e con successo, torna un appuntamento che si sta ritagliando un ruolo di spicco nella scena artistica e mondana internazionale: A Glimpse at Photo Vogue.
Vogue Italia, infatti, da sempre devoto allo scouting di talenti e particolarmente attento a sostenere l’eccellenza fotografica, dal 2011 ha dato vita a Photo Vogue, un canale di Vogue.it pensato per promuovere il lavoro dei fotografi, professionisti e non, provenienti da ogni parte del mondo.
Il funzionamento è molto semplice: chiunque infatti può caricare le proprie foto che, prima di essere pubblicate, passano il vaglio della redazione di Vogue.it sotto la supervisione di Alessia Glaviano, photo editor di Vogue Italia e L'Uomo Vogue. Dal suo inizio a oggi, si conta la presenza di oltre 55.000 fotografi; è inoltre online la piattaforma che concretizza la collaborazione tra Photo Vogue e Art+Commerce, la prestigiosa agenzia fotografica internazionale che rappresenta alcuni fra i più grandi fotografi contemporanei tra cui i contributors di Vogue Italia Steven Meisel, Craig McDean, Sølve Sundsbø, Tim Walker e Paolo Roversi. La collezione di Photo Vogue ospitata da  Art + Commerce è una library di immagini tutelate dal diritto d'autore e contiene le foto pubblicate su Photo Vogue. Un'iniziativa che aumenta in maniera esponenziale visibilità e possibilità.
Questa seconda edizione di "A Glimpse at Photo Vogue", ospitata negli spazi della Galleria Carla Sozzani di Milano, vuole essere una naturale evoluzione del progetto dello scorso anno per cui saranno in mostra 25 artisti ognuno con quattro immagini per permettere una più approfondita conoscenza del loro lavoro
I fotografi scelti sono una testimonianza dell'anima poliedrica di Photo Vogue, che sin dall'inizio è aperta a tutti i campi della fotografia, dal reportage allo still life, dalla moda all'architettura: così i ritratti pregnanti e ossimorici delle donne siriane che imbracciano le armi scattati dal neo premiato dal World Press Photo Sebastiano Tomada Piccolomini possono convivere insieme alle atmosfere onirico-vittoriane delle fotografia di moda di Paulina Otylie Surys, con i macro-still life di Kate Scott, e ancora con le atmosfere costruite in perfetto stile fiabesco di Kirsty Mitchell, a quelle rarefatte di Loreen Hinz, alle architetture raffinate e rigorose di Fabio Vittorelli, alla street photography di Toru Tanaka, ai ritratti anticonvenzionali di Billy Kidd e a quelli concettuali di Anna di Prospero.
Un volo pindarico, quindi, sulla fotografia tout court, passando per tutte le sue possibili declinazioni e puntando l’attenzione sui nuovi talenti, motore propulsore del futuro di quest’arte così eccelsa che con l’istantaneità di un fotogramma immortala l’eternità di emozioni, suggestioni e situazioni.

A Glimpse at Photo Vogue
in collaborazione con Vogue

Galleria Carla Sozzani
Corso Como 10 – 20154 Milano
tel. +39 02.653531 -  fax +39 02.29004080 - press@galleriacarlasozzani.org

In mostra dal 14 giugno al 10 agosto 2013
martedì, venerdì, sabato e domenica, ore 10.30 – 19.30
mercoledì e giovedì, ore 10.30 – 21.00
lunedì, ore 15.30 – 19.30

PEOPLE_Federico Forquet: stile pulito e seduzione intelligente

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Discendente da una famiglia di origine francese, lo stilista italiano Federico Forquet nasce e cresce all’ombra del Vesuvio, a contatto con il bel mondo e i salotti che contano. La sua famiglia, infatti, nel 1789 si trasferisce a Napoli per sfuggire alla rivoluzione: uno dei suoi antenati diviene ministro di Ferdinando IV di Borbone.
A sei anni comincia a studiare pianoforte al Conservatorio, sviluppando una particolare affinità con la musica, che diventa la sua grande passione. Poi, appena ventenne, la svolta: ama trascorrere il tempo disegnando. Si tratta inizialmente solo di schizzi, che però riscuotono l’ammirazione di Balenciaga, presentatogli da un amico a Ischia. È il 1955. Il grande sarto lo invita a bottega nel suo atelier parigino, dove già cominciano a muovere i primi passi Ungaro e Courrèges. Decide così di abbandonare l’Università, lavorando a fianco del maestro che all’epoca rappresentava il massimo livello dell’haute couture. Trascorre due stagioni nella Ville Lumière, dopodiché il rientro in Italia e, per la precisione, a Roma, dove continua ad apprendere ed affinare il mestiere da Fabiani e, successivamente, lavora per Irene Galitzine.
Nel 1962 si sente pronto per il debutto, che avviene sulla passerella della celeberrima Sala Bianca di Palazzo Pitti. Un trionfo: sfila un bon ton accompagnato da una personalissima nota chic, che rende omaggio a una donna charmante e seducente al tempo stesso. Per dirla breve, il suo è lo stile dell’eleganza. È qualcosa che si spinge oltre il mero perfezionismo formale e approfondisce la semantica del gusto e della raffinatezza, paradigmi che vanno al di là dello scorrere del tempo, restando immutabili nelle stagioni della vita. Irene Brin lo celebra scrivendo “Il Dior italiano si chiama Forquet”. Da quel debutto in poi si ricordano memorabili esercitazioni di grande livello: abiti in alcuni casi considerati difficili, proprio per quella raffinatezza fatta di tagli puliti e precisi. Un invito subliminale a vestirsi di linearismo, quando alcuni colleghi prediligono un’ispirazione barocca. Le clienti sposano appieno il suo stile: teste coronate, principesse e regine, miliardarie e dive, first ladies, trovano nelle sue creazioni l’esatta compensazione di femminilità ed eleganza, di seduzione e raffinatezza. All’estero è una star: la stampa inglese lo definisce “Frederick the Great”.
Numerose le innovazioni da lui apportate e introdotte nella moda e che hanno segnato inesorabilmente la sua evoluzione: i primi hot pants sono merito suo così come il suo nude look anticipa quello tanto osannato di Yves Saint-Laurent. Una giovanissima Ira Fürstenberg, modella d’eccezione, sembra vestita di aria colorata; le trasparenze di gonne e pantaloni si accompagnano a top di sole collane.
Nel frattempo, con inesorabile frenesia, si susseguono le stagioni della moda: è l’avvento del prêt-à-porter e Forquet, solista del costume, chiude il suo atelier nel 1972. Ha sempre fatto tutto da solo, non ha mai avuto un assistente, né un disegnatore, non solo per i modelli, ma nemmeno per gli accessori e le stoffe. Sarebbe stato, quindi, impensabile per lui instaurare rapporti con l’industria. Il business fine a se stesso non è mai interessato a Forquet, che ha sempre fatto dell’ispirazione, della creatività e della moda nella sua più autentica accezione i veri pilastri sui quali articolare la sua attività.
Segue una breve parentesi nel corso della quale disegna tessuti per arredamento, dopodiché la permanenza a Roma si dirada: preferisce risiedere nella bella casa che si è costruito nei dintorni di Siena, dove scopre un’altra stimolante vocazione: i giardini. Con amabile maestria disegna il suo: un’armonia di verde, percorso dai colori che alternano le stagioni. Diviene dunque stilista di giardini per gli amici, gli amici degli amici. Così vive oggi questo professionista dell’eleganza, fautore dello stile di un’epoca e, al contempo, antesignano di tendenze che oggigiorno imperano sulle passerelle di tutto il mondo. Due le clienti rimaste amiche: Marella Agnelli, da sempre considerata l’ispiratrice della sua moda, e Allegra Caracciolo, per un periodo sua collaboratrice. Nessun rimpianto, se non il desiderio di rivivere le emozioni del passato. Numerosi i ricordi di stilisti che negli anni a venire hanno fatto grande la moda italiana. Uno su tutti, quello di Giorgio Armani, che gli elogia per lo stile pulito e la seduzione intelligente: un mix congeniale a entrambi. 

ABOUT_Il lato celebre dei jeans

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“Ho detto spesso che mi sarebbe piaciuto inventare i jeans: il capo più spettacolare, più pratico e nonchalant. Hanno carattere, modestia, sex appeal e semplicità – tutto quello che spero esista nelle mie creazioni”: questo, forse, il rammarico più forte di Yves Saint-Laurent che, se anche non ha inventato i mitici jeans, ha in ogni caso segnato in maniera indelebile la storia del costume e della couture.
Rimpianti celebri a parte, i jeans nella loro essenzialità rappresentano valori emblematici come sincerità, autenticità, coscienza del proprio corpo. Nell’universale spettro del visibile che contempla tutte le gradazioni dell’azzurro denim, griffati o meno che siano, disegnati o ricamati, racchiudono sempre la giusta dose di poetica rudezza che li contraddistingue da decenni, rendendoli immortali. E se ufficialmente esiste una data per festeggiare il loro compleanno – 20 maggio 1873, quando l’ufficio americano dei brevetti rilascia al commerciante Levi Strauss e al sarto Jacob Davis l’autorizzazione a produrre in esclusiva pantaloni di cotone robusto tenuti insieme da rivetti metallici– la loro origine è italiana. Il loro nome, infatti, deriva dalla storpiatura di “Genova”, dove venivano tagliati e cuciti per i marinai che, dovendo traversare in lungo e in largo mari e oceani, richiedevano abiti in tessuti robusti, realizzati con la tela cobalto proveniente dalla città francese di Nimes, “de Nimes”, da cui deriva la parola “denim”.
Tutti ne possiedono almeno un paio nell’armadio, da alcuni sono addirittura considerati un modo di vivere, da altri il capo passe-partout in grado di risolvere ogni inconveniente vestimentario, da altri ancora un oggetto di culto, inviolabile nel suo valore più autentico, e infine non mancano quelli per i quali sono una moda permanente, una sorta di evergreen imperturbabile allo scorrere del tempo e delle stagioni. Tanto permanente da essere arruolato ufficialmente per la campagna pubblicitaria USA della MasterCard, noto marchio di carte di credito, dove le foto di tre iconerigorosamente in jeans per l’appunto – Marlon Brando, James Dean e Marilyn Monroe– sono utilizzate per lo slogan: “Trovare il jeans perfetto? Non ha prezzo”. Un’autorevolezza a tuttotondo, che pone in risalto il lato oscuro del denim, ossia quello di esaltare la seduzione e rivestire il desiderio: dall’adolescente Brooke Shields che sussurrava in uno spot per Calvin Klein “Cosa c’è tra me e i miei Calvin? Assolutamente niente” alla parata in blu che accompagnava i motti culturali anti-convenzionali degli anni ’70 e ’80. Andy Warhol nel 1971 firma un close-up di jeans maschile, con tanto di cerniera funzionante, per l’album Sticky Fingers deiRolling Stones, il cui leader, Mick Jagger, pochi anni prima aveva fatto da testimone di nozze al matrimonio tra Catherine Deneuve e David Bailey completamente vestito in denim.
Le eroine del serial Charlie’s Angelsne fanno la loro divisa; si propone sportivo, invece, sulle gambe scattanti di Kelly McGillis in Top Gun (Tony Scott, 1986), aderente per Thandie Newton in Mission: Impossible 2 (John Woo, 2000), folk firmato Dsquared nel 2000 per il video Don’t tell me di Madonna e modaiolo per Anne Hathaway ne Il diavolo veste Prada (David Frankel, 2006). Anche se, meritatamente, le apparizioni cinematografiche più celebri e indimenticabili restano quelle di Marilyn Monroe: dalla sexy ma fragile Kay, la cantante di saloon de La magnifica preda (Otto Preminger, 1954) alla bella e ingenua Roslyn ne Gli spostati (John Huston, 1961). In entrambi i casi, i jeans esaltano le forme, mettendo in risalto però, al contempo, la personalità e l’autenticità della persona. Un capo d’abbigliamento che, per così dire, si spinge oltre il personaggio, per andare a scovare le inclinazioni più nascoste e celebrarle con l’onnipotenza visiva e immaginifica che solo un paio di jeans può garantire, restando inalterata nel tempo e proponendosi sempre nella fulgida essenza di informale formalismo.

LEISURE_Glamour & Charity a Milano: l'evento

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Una serata da ricordare quella di giovedì 23 Maggio al Mercedes-Benz Center di Milano: la presentazione del libro edito da Electa “Le mie amiche dicono che…”, ideato e voluto da Nicoletta Poli Poggiaroni e Roberto Spada con l’intento di raccogliere fondi da destinare alle opere della Fondazione Umanitaria “City of Joy Aid” di Dominique Lapierre.

Nata in India nel 1982, “City of Joy Aid” è un'organizzazione umanitaria senza scopo di lucro fondata e finanziata dal celebre scrittore francese Dominique Lapierre e da sua moglie. L’associazione, nata originariamente per aiutare i bambini sofferenti di lebbra che affollano le bidonville di Calcutta, opera oggi in diversi Paesi a favore delle persone più svantaggiate del mondo attraverso una rete di cliniche, scuole, centri di riabilitazione e barche ospedale.

Dunque, non un libro qualsiasi ma un gesto per fare del bene. 240 pagine da gustare con sorpresa e curiosità, come se si sfogliassero i “taccuini privati” di alcune fra le protagoniste più chic della vita meneghina di oggi… 51 autrici “speciali”, unite da una nobile causa, hanno infatti deciso di svelare ai lettori indirizzi nascosti e quasi segreti, che sfuggono anche a Internet, da annotare e sperimentare, contribuendo così alla realizzazione del libro e alla raccolta dei fondi. Due di queste hanno anche contribuito all’evento: Melba Ruffo di Calabria, conduttrice d’eccezione, che con professionalità e simpatia ha coinvolto il pubblico in una frizzante e informale presentazione, raccontando alcuni aneddoti interessanti e divertenti presenti nel libro, e Laura Morino Teso, organizzatrice e social pr dell’evento.

Presenti la maggior parte delle 51 autrici, solo per citarne alcune: Maria Emanuela Vallarino Gancia Orioli e la figlia Betta Gancia Fontana, Annamaria Bernardini De Pace e Laura Sartori Rimini, Vannozza Guicciardini Paravicini Crespi e Alida Forte Catella, Alessandra Moschillo e Talitha Puri Negri, Ornella Vanoni e Paola Buratto Caovilla.

Cornice di eccellenza, il Mercedes-Benz Center di Milano, che ha ospitato l’evento nella sua splendida e avveniristica sede con un sofisticato Welcome Drink a base di champagne, gentilmente offerto da Moët & Chandon, e a seguire un ricco e sfizioso Light Dinner con DJ set al piano superiore del Center, con vista mozzafiato delle sue prestigiose autovetture e installazioni.

Tra gli ospiti della serata, oltre al padrone di casa Radek Jelinek, Amministratore Delegato di Mercedes-Benz Milano, e al Direttore generale Libri di Mondadori Electa Stefano Peccatori, numerosi volti del mondo dell’industria, della finanza, della cultura, dello spettacolo e del Jet Set, tra cui Bruno e Iris Ermolli, Ernesto Mauri con Maria Felice Ardizzone, Maria Luisa Trussardi, Elio Fiorucci, Lina Sotis, Gianna Ratti, Adriano Teso, Marco e Bianca De Luca, Paolo Berlusconi, Carla Tolomeo, Alessandro Algardi, Massimiliano Ermolli con Pilar Palacio Ordonez.

Le mie amiche dicono che…
Electa, 240 pagine, 60 illustrazioni
40 euro
In libreria dal 4 giugno 2013
Parte del ricavato andrà devoluto alla Fondazione Umanitaria “City of Joy Aid” di Dominique Lapierre

Autrici del libro
Annamaria Bernardini de Pace, Cinzia Berti, Paola Bianchi, Emanuela Bonomi Croce, Giaele Bosio, Michela Bruni Reichlin, Claudia Buccellati, Paola Buratto Caovilla, Margherita Chiarva, Nicoletta Diana Del Mar, Alessandra De Marco, Marinella Di Capua, Alida Forte Catella, Ita Franchini Klinger, Betta Gancia Fontana, Daniela Gerini, Donatella Girombelli, Umberta Gnutti Beretta, Alessandra Grillo, Vannozza Guicciardini Paravicini Crespi, Rossella Jardini, Andreina Longhi, Marisa Malerba, Warly Mantegazza Tomei, Giorgia Martone, Albertina Marzotto, Giovina Moretti, Laura Morino Teso, Alessandra Moschillo, Letizia Ogniben, Talitha Puri Negri, Titti Quaggia, Liliana Querci Innocenti, Maria Vittoria Randaccio del Timavo, Giorgia Re, Lithian Ricci, Lia Riva Ferrarese, Maela Rosso Andreana, Alessandra Rovati Vitali, Melba Ruffo di Calabria Vicens Bello, Micol Sabbadini, Laura Sartori Rimini, Valentina Scambia Floriani, Riccarda Serri, Diana Terragni, Maddalena Tronchetti Provera, Maria Emanuela Vallarino Gancia Orioli, Ornella Vanoni, Sandra Vezza, Maurizia Villa, Giulia Zoppas

ABOUT_Gli attimi celebri del bikini

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È quel bikini che mi ha dato il successo”. Così ancora oggi, Ursula Andressracconta il motivo principale della sua celebrità, facendo riferimento al film Agente 007 – Licenza di uccidere(Terence Young, 1962) e all’indimenticabile scena – bersaglio di innumerevoli, quanto vani, tentativi di imitazione - in cui usciva dall’oceano in un due pezzi bianco, pronta a sedurre l’agente 007/Sean Connery. Un bikini divenuto un feticcio, stando a giudicare le 35.000 sterline a cui è stato battuto in un’asta londinese.
Viene da sorridere se si pensa che nel 1951, per timore di offesa al pubblico pudore, fu proibito alle aspiranti Miss Mondo. Anche se, in realtà, non bisogna correre così indietro nel tempo, ma fermarsi al 2005 per trovare lo scoglio della legalità: il trailer di Trappola in fondo al mare (John Stockwell, 2005) in America, infatti, è stato manipolato digitalmente per rendere il bikini della protagonista Jessica Alba meno provocante e non incorrere in divieti di alcun tipo.
Vi è da dire che di strada ne ha fatta il bikini se si considera che le sue prime apparizioni risalgono all’epoca romana. Tuttavia, esiste una data ben precisa a cui riferire la sua nascita: correva l’anno 1946 quando il sarto francese Louis Réard lo inventava, battezzandolo come l’atollo di Bikini nelle Isole Marshall, dove negli stessi anni gli Stati Uniti conducevano test nucleari. Réard, infatti, riteneva che l’introduzione del nuovo tipo di costume avrebbe avuto effetti esplosivi e dirompenti. E come dargli torto?! Il suo modello rifiniva il lavoro di Jacques Heim che, due mesi prima, aveva introdotto l’Atome (così chiamato a causa delle dimensioni ridotte), pubblicizzato come il costume da bagno più piccolo al mondo. Tuttavia, non pienamente soddisfatto, Réard lo rese ancora più piccolo, ma non riuscì a trovare una modella che osasse indossarlo. Finì per ingaggiare Micheline Bernardini, spogliarellista del Casino de Paris. L’intento di calarlo nella vita reale e quotidiana fu la miccia che scatenò le reazioni della chiesa e dei benpensanti. Dovettero trascorre quindici anni perché il bikini fosse accettato negli Stati Uniti.
Nel 1956, il bikini indossato da Brigitte Bardot nel film E Dio creò la donna(Roger Vadim) e nel 1960 la canzone di Brian HylandItsy Bitsy Teenie Weenie Yellow Polka Dot Bikini, diedero l’avvio a una corsa all’acquisto del bikini.
In America sue grandi estimatrici e testimonial incomparabili sono state Marilyn Monroe e Rita Hayworth. Nel 1957, Jane Mansfield fu immortalata sulla copertina di Life Magazine con uno strepitoso bikini. Negli anni ’60, il due pezzi entra di diritto a far parte del mercato di massa: nel 1963 il film Vacanze sulla spiaggia, di William Asher con Annette Funicello (non in bikini, dietro espressa richiesta della Walt Disney) fu il primo di una lunga serie di pellicole che resero il costume un’icona della cultura pop.
L’alto tasso seduttivo ne ha fatto un ingrediente di successo di innumerevoli film e telefilm dal momento in cui venne ritenuto accettabile per il pubblico pudore. Un esempio su tutti è dato dai surf movie degli anni ’60 o da serie tv come Baywatch.
La lista delle apparizioni da piccolo e grande schermo non si esaurisce qui: Raquel Welch eroina preistorica nel film Un milione di anni fa (Don Chaffey, 1966), Phoebe Cats in Fuori di testa (Amy Heckerling, 1982), Charlize Theron e il suo bikini-armatura con il quale sfida il male in AEon Flux (Karyn Kusama, 2005).
Oltre mezzo secolo e non sentirlo. Il bikini ha segnato un capitolo della moda, tracciandone l’evoluzione in stretto contatto con il contesto socio-culturale dell’epoca, che vedeva la donna proiettata verso un’emancipazione globale. Il tutto sull’onda di un gioco equilibrato degli estremi: perché se con pochi centimetri di stoffa nasconde, al tempo stesso rivela, evocando e mostrando all’unisono. 

PEOPLE_Tom Ford: esteta, stilista e cultore dell'arte

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Il 18 settembre 2011, in occasione della London Fashion Week, ha “debuttato” in passerella col suo marchio, presentando la collezione donna. Un debutto, se così si può definire, atteso. Sì perché Tom Ford ben abituato è a calcare le scene del glamour internazionale. Golden man che negli anni ’90 ha reinventato Gucci, facendone la più alta e completa espressione di desiderio modaiolo; anima creativa di Yves Saint Laurent; Re Mida negli anni zero della sua omonima label; spirito eclettico alla scoperta di nuovi orizzonti, devoto alla multidisciplinarità tanto da definire la moda come “il tutto” e quindi non solo vestiti ma arte, musica, design, grafica, trucco, acconciature, architettura, auto.
Texano di nascita ma newyorchese e parigino di formazione, con tanto di Studio 54 come scuola, ha vissuto il periodo più eccitante della Grande Mela, la fine dei 70s, quello dell’edonismo esclusivo di Warhol e Halston, che tanto lo hanno ispirato nei primi schizzi così come nelle collezioni future.
Innamorato del lusso e del bello, con quell’aria da divo quel tanto che basta perché posi personalmente per molte delle sue pubblicità, Tom Ford possiede quella dote innata di capire e anticipare l’evoluzione del gusto con linee, materiali, colori e suggestioni che diventano tendenza. Il suo indiscusso valore aggiunto è racchiuso nella capacità di guardare al passato per reinterpretare e mescolare le fonti in chiave moderna, ottenendo il nuovo dall’esistente. A sigillo di garanzia il suo imprinting creativo, come dimostrato dal mocassino col morsetto di Gucci riletto in versione plateau e dalla campagna pubblicitaria del profumo YSL M7 in cui il campione di arti marziali Samuel de Cubber posa nudo indossando un paio di occhiali da vista, evocando una foto del ’71 di Saint Laurentritratto in modo analogo per il lancio di una fragranza maschile. Una lungimiranza creativa con un occhio al passato per creare sogno, desiderio, aspirazione, edonismo modernista.
Per Tom Ford bello fa rima con lusso, ma un lusso circondato da un alone élitario ed esclusivo e a cui tutto tende, comunicazione compresa: a lui il merito di aver compreso l’importanza di campagne pubblicitarie mirate, dal messaggio forte e seducente. Da qui le collaborazioni con Mario Testino, Richard Avedon, Steven Meisel, Helmut Newton, Herb Ritts.
Una carriera quella di Ford iniziata nel 1988 da Perry Ellis, sotto la direzione di Marc Jacobs, e proseguita a tambur battente con Gucci (1990-2004) e Yves Saint Laurent (2000-2004), per arrivare nel 2007 nella costellazione dei grandi nomi col proprio marchio, nato inizialmente come linea di profumi, cosmesi e eyewear: di quell’anno il profumo Black Orchid. Fatale, sensuale e ammaliante, avvolgente come un abbraccio, persistente ma non invasivo, con una nota dominante di orchidea nera (di cui possiede appositamente una piantagione), evoca lussi e atmosfere da elegante boudoir, tripudio di sete, damaschi e velluti. Presto si aggiungono le linee uomo (2007) e donna (2010) e il gioco è fatto, complice anche la creazione di pochi, selezionati e opulenti monomarca che molto dicono del suo universo lussuoso.
Comprare Tom Ford significa spingersi oltre un modello d’eleganza a cui ispirarsi e sposare uno stile di vita, fatto di ricerca del bello in ogni ambito di esclusiva quotidianità, per e far respirare eleganza.
La moda gli ha dato molto ma, forte del suo eclettismo culturale, nel 2009 si dedica alla settima arte e, ça va sans dire, è successo. Con la regia di “A single man”, tratto dall’omonimo romanzo di Christopher Ischerwood, presentato alla 66a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e interpretato da Colin Firth (vincitore della Coppa Volpi per la miglior interpretazione), Tom Ford esprime il suo senso estetico, in cui tutto è somma espressione di perfezione e desiderio.

LEISURE_Festival Filosofi lungo l'Oglio: al via oggi l'VIII edizione

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Al via oggi l’VIII edizionedel Festival Filosofi lungo l’Oglio, incentrato quest’anno sulla tematica Noi e gli altri. Un Simposio di Pensiero e di Parole; una manifestazione che, senza mai perdere la sua freschezza, torna ogni anno ad animare la valle resa feconda dal Sommo Vegliardo, il Fiume Oglio, mirando ad una fecondità di ordine superiore: offrire lezioni magistrali di alta divulgazione – tutte ad ingresso libero – su temi fortemente legati all’esistenza di ognuno, affidandone la disamina ai grandi maestri del pensiero contemporaneo e portando il filosofo in mezzo alla gente, nella consapevolezza che la diffusa richiesta di senso sia un bisogno sociale da soddisfare e da prendersi sul serio.
Un evento itinerante, in tour tra le province di Brescia e Cremona, nell’ambito del quale, fino al 25 luglio 2013, si susseguiranno relatori di elevata levatura, come vuole la tradizione, pronti a illuminare con le loro acute riflessioni quanti interverranno. Per il mondo francese torneranno, nella splendida cornice della Chiesa S. Maria del Carmine di Brescia, l’antropologo dei nonluoghi Marc Augé e la pensatrice Danielle Cohen-Levinas, nuora del grande filosofo Emmanuel Levinas. Per la scuola tedesca ha confermato la sua presenza uno dei massimi filosofi della religione, Bernhard Casper, vincitore con il suo volume: Das Dialogische Denken. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner und Martin Buber (Alber 1967; 2002) tr. it. Il pensiero dialogico. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner e Martin Buber (Morcelliana 2009) della Prima Edizione del Premio Internazionale di Filosofia/Filosofi lungo l’Oglio. Un libro per il presente. Interverrà poi il meglio del pensiero italiano: Salvatore Natoli, Maria Rita Parsi– rispettivamente padrino e madrina del Festival – Edoardo Boncinelli, Vanni Codeluppi, Duccio Demetrio, Massimo Donà, Umberto Curi, Massimo Cacciari, Francesca Rigotti, Remo Bodei, Adriano Fabris, Stefano Semplici, Piero Coda.
Domenica 16 giugno, inoltre, avrà luogo la cerimonia di proclamazione del vincitore della II edizione del Premio Internazionale di Filosofia/Filosofi lungo l’Oglio. Un libro per il presente. Il conferimento della prestigiosa benemerenza si terrà, a partire dalle ore 18, nell’Aula Magna del Centro Pastorale Paolo VI a Brescia, alla presenza dell’intera giuria composta dai Professori: Ilario Bertoletti– direttore editoriale Morcelliana e Scuola, Azzolino Chiappini– Magnifico Rettore della Facoltà di Teologia di Lugano, Adriano Fabris (Presidente) dell’Università di Pisa, Amos Luzzatto– Presidente emerito dell’UCEI, Aldo Magris dell’Università di Trieste, Salvatore Natoli dell’Università Milano-Bicocca, Maria Rita Parsi– Presidente Fondazione Movimento Bambino e psicoterapeuta e da Francesca Nodari, direttore scientifico del Festival e segretario del Premio.

In linea di continuità con le edizioni precedenti, quest’anno il Festival propone riflessioni strettamente legate all’esistenza di ciascuno, rinvenendo nella problematizzazione della relazione– dimensione costitutiva del rapporto che intercorre tra noi e gli altri – la sfida che il nostro mondo globalizzato pone o, se così si può dire, ripropone all’uomo del XXI secolo. Un mondo ove ad entrare in crisi sono le agenzie educative: la famiglia, la scuola, l’università; le grandi narrazioni della politica, delle ideologie, delle religioni e, da ultimo, e non certo per minor importanza, la crisi della comunità. Una temperie culturale dove la cifra dominante sembra quella del disorientamento del soggetto in preda, per usare un’espressione kierkegaardiana, a una sempre più impellente “disperazione della possibilità”. Lasciato solo dalle scienze – perlopiù permeate da una visione della realtà nei termini di un mero more geometrico – dinnanzi alla domanda cruciale “che cosa devo fare, come mi devo comportare in questa situazione?”; iperstimolato dai nuovi mezzi di comunicazione ove all’abbattimento delle distanze e all’accelerazione dei trasferimenti corrisponde un ulteriore sfasamento - con internet e i social media si può interagire in tempo reale, anche a distanza di migliaia di km - l’esserci rischia di cadere preda del cosiddetto paradosso della planetarizzazione. E il pedaggio da pagare per percorrere le autostrade informatiche, apparentemente attraenti e comode – in fondo basta sedersi davanti al proprio pc o disporre di un iphone per coltivare l’illusione di comunicare davvero col mondo – si traduce spesso in una pericolosa frantumazione della propria identità tra nicknames e profili immaginari, con un progressivo sconfinamento del reale nel virtuale.
Non si intende certo demonizzare le nuove possibilità della comunicazione, ma appunto di possibilità si tratta. Di mezzi e non di fini, di strumenti e non di mondi alternativi a quello in cui ci è dato vivere. Di qui la tentazione sempre più frequente di fuga dalla realtà con il risultato di ottenere l’effetto contrario a quello voluto: la soggettività, pervenendo sartrianamente ad una sorta di autoimprigionamento della propria coscienza, si consegna ad un’icona, ad un’immagine muta che si pone, si espone o addirittura si dà in pasto all’anonimato delle comunità virtuali.
Già qui la relazione è messa prepotentemente in scacco e, quel che è peggio, rischia di sostituire quella reale: chi c’è dietro quell’avatar, da dove viene, qual è la sua storia? Domande che, in molti casi, restano senza risposta o che forse l’homo consumans, immerso com’è nella liquidità odierna, neppure ritiene di porsi teso ad indossare, di volta in volta, maschere che riproducano certi modelli, perpetuino la finzione, promettano l’euforia a quelle che, ormai, come nota Bauman sono vite di corsa. Vite isolate, deserte ove la minaccia de La morte del prossimo, come avverte Luigi Zoja, sembra palpabile. Di qui l’urgenza di riflettere su noi e gli altri, sulla messa in crisi dell’uomo come animale politico e come essere parlante, ossia come colui che, per dirla con Natoli, coglie nella trama delle relazioni “un appartenersi e un appartenere a” e, insieme, come colui che presta ascolto a ciò che l’altro dice e che ascolta l’altro mentre questi si rivolge a lui e lo invoca.
Riflettere sulla relazione, quindi, è una sfida che richiede una tematizzazione di che cosa si deve intendere oggi per soggetto e per Altro, e dunque per umanità dell’uomo, per libertà, per volontà, per tolleranza, per rispetto, per convivenza civile e pacifica e che necessita, altresì, di essere indagata a partire da prospettive diverse: da quella antropologica a quella etica, da quella fenomenologico-ermeneutica a quella teologica, da quella sociologica a quella politica.
Una sfida che si deve affrontare senza alcuna possibilità di procrastinazione e che si afferma anche quando la si nega degradando, ad esempio, il tu ad esso. Di qui il darsi di una fenomenologia della relazione: come nasce? Quali sono le sue condizioni? In quali forme si esplica? E se l’individualismo, l’egoismo, il solipsismo ne decretano lo scacco, la prossimità, l’apertura ad altri - in quanto ne siamo debitori sin dal nascere- non ne favoriscono, al contrario, il suo instaurarsi concreto? Un instaurarsi che rinvia ad un’altra sfida, altrettanto urgente, quella del dialogo, che si declina in maniera plurivoca, attraversando trasversalmente le sfere del nostre essere in società con gli altri: con i genitori, con i figli, con il partner, con le vecchie e nuove generazioni, con chi ha usi, costumi e abitudini diversi dai nostri, con chi appartiene a un altro credo o, affermando la propria laicità, si apre all’incontro e al confronto con l’altro. Non si sottrae, ma al contrario, si mette in gioco, entra in relazione. Ma quali sono i luoghi del dialogo e in che modo se ne può favorire la pratica nella cosiddetta età del rischio? In che termini, oggi, attraverso il rapporto dialogico si possono “gettare ponti” tra gli uomini nell’ambito personale e comunitario, ma anche in quello della mediazione tra popoli e culture? Interrogativi che stanno alla base di un esistere plurale e condiviso.
Parlare oggi di noi e gli altri significa avere il coraggio, come ha mostrato Adriano Fabris nel suo illuminante volume TeorEtica, di portare alla luce ciò che nei luoghi classici del pensare risulta come l’impensato: il concetto di relazione, appunto. E di declinarlo attraverso il coinvolgimento del soggetto nella teoria e nella decisione morale. Coinvolgimento che va oltre la dimensione meramente psicologica, afferendo a qualcosa di strutturale, come ciò senza cui non si da relazione.
La teoria, anche nelle sue elaborazioni più alte, non è in grado di coinvolgere. Può convincere, può persuadere. La teoria non riesce a motivare all’azione. Se infatti so cosa è bene, non è detto che non faccia il male: ciò accade non tanto perché sono libero di comportarmi in modi diversi da quelli indicati dal sapere, piuttosto perché la teoria risulta davvero impotente sul piano della messa in opera di azioni responsabili. La teoria, pertanto, può dare il via ad azioni efficaci ed efficienti, basate, più o meno specificamente, sul principio di causalità. La motivazione della teoria, invece, è il controllo dei processi che essa ha spiegato. E questo controllo è fornito oggi dagli strumenti tecnologici. Ma ciò che manca, qui, è la messa in gioco di una responsabilità più ampia: quella che si assume il compito di realizzare i principi, che magari la teoria ha contribuito a chiarire, all’interno dell’agire quotidiano. Questa responsabilità deriva dal riconoscimento della struttura relazionale da parte di ciascuno di noi e dall’assunzione, riflessiva e libera, di tale struttura in ogni occasione del nostro agire. Ma non è tutto...intendendo dare una risposta fattiva al diffuso senso di indifferenza dinnanzi a tutte le questioni che riguardano le scelte fondamentali della nostra vita, la TeorEtica presuppone un concetto impegnato di teoresi e diffusivo di etica. Di qui il ruolo fondamentale giocato da questa fondazione del principio etico della relazione come relazione capace di promuovere relazioni.
E se è vero che solo le relazioni feconde sono relazioni buone, intendendo levinasianamente per fecondità “avere possibilità oltre ogni possibile, al di là di tutto il possibile”, questo Simposio di Pensiero e di Parole costituirà sicuramente un laboratorio in cui la filosofia della relazione viene esperita e messa in pratica. Una sorta di risposta all’inesauribile richiesta di senso, che è il bisogno quanto mai attuale della filosofia.

Festival Filosofi lungo l’Oglio – Noi e gli altri
VIII edizione
Dal 6 giugno al 25 luglio 2013, ore 21.15

Per il programma completo degli appuntamenti www.filosofilungologlio.it

Iniziativa realizzata sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con il Patrocinio del MIBAC, della Prefettura di Brescia, della Consigliera di Parità della Provincia di Brescia, dell’Assessorato Culture, Identità e Autonomie della Lombardia, delle Province di Brescia e Cremona, dei Parchi Oglio Nord e Sud nonché degli enti ospitanti e in partnership con la Fondazione Movimento Bambino

LEISURE_Louis Vuitton et Les Journées Particulières

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Saranno particolari le giornate che Louis Vuittonha organizzato per i prossimi 15 e 16 giugno.
Fedele alla tradizione come poche altre realtà e consapevole di come essa rappresenti un inestimabile valore aggiunto, la Maison rinnova per quest’anno l’appuntamento con le “Journées particuliers”, sulla scia della passata edizione che ha consentito a oltre 100mila visitatori di scoprire il dietro le quinte e il patrimonio di 25 esclusivi luoghi in Francia e in Europa.
L’edizione 2013 ne potrà contare oltre 40, aperti gratuitamente in Francia – a Parigi così come nel resto del Paese –, Italia, Spagna, Svizzera, Regno Unito e Polonia. Luoghi inesplorati, sconosciuti ai più e spesso meta di addetti ai lavori o di pochi e selezionati che vi possono scoprire segreti, curiosità e peculiarità. Un’occasione unica con cui si aprono i battenti al grande pubblico, coinvolgendolo in un’esperienza senza precedenti e dall’elevato impatto emozionale.
Anche quest’anno, come è stato per la scorsa edizione, i salotti di Christian Dior in Avenue Montaigne, l’atelier delle scarpe su misura di Berluti, la dimora di famiglia di Louis Vuitton e il laboratorio d’Asnières saranno visitabili. Insieme a loro, apriranno i battenti per la prima volta nuovi siti come la sede produttiva di Guerlain a Orphin (Rambouillet), il laboratorio di Vuitton a Marsaz nella provincia della Drôme, la tenuta viticola Numanthia in Spagna, Acqua di Parma in Italia. Dulcis in fundo, le Maison di Orologeria Zenith, Tag Heuer e Hublot in Svizzera.
Un evento unico e irripetibile nel suo genere, che celebra l’eccellenza artigianale delle Maison del Gruppo LVMH. Un patrimonio apprezzato dal pubblico, che si declina in tutte le sfumature del bien vivre– atelier, cantine, hôtels particuliers, dimore famigliari, boutique storiche, ecc. -, mostrando uno stile eterno e permeante ogni angolo dell’esistenza umana. Storia, cultura e senso dell’autenticità sono i capisaldi alla base di simili tesori, che rappresentano la quintessenza di una nobile tradizione artigianale, perpetuata e preservata nel tempo, e di un fattore distintivo di prima categoria, sia per le implicazioni economiche che per quelle occupazionali.
Le “Journées particulières”, pertanto, si pongono come un momento di celebrazione degli innumerevoli mestieri e del savoir-faire artigianale, dell’abilità manuale e dello slancio creativo che da sempre contraddistinguono produzioni senza tempo, destinate a solcare la storia, immutabili nel gusto e inconfondibili nello stile.
Valori che sono alla base dell’heritage delle Maison del Gruppo LVMH e che tuttora rappresentano dettami irrinunciabili, inorgogliendo 48mila dipendenti in Europa, di cui 22mila in Francia. Antoine Arnault, Direttore Generale di Berluti e Amministratore del Gruppo LVMH, non ha nascosto l’entusiasmo legato alla realizzazione di un simile evento, che si caratterizza per l’imprescindibile coinvolgimento di migliaia di artigiani e dipendenti dalle diverse mansioni – ma accomunati da uno spiccato senso di appartenenza e da un’unicità di valori – grazie ai quali il pubblico può scoprire la varietà del patrimonio e del savoir-faire trasmessi di generazione in generazione.
Una carica motivazionale con la quale le Maison del Gruppo LVMH hanno organizzato l’edizione 2013 dell’evento, allargando il raggio d’azione: la maestria prende vita e si dispiega nei suoi tratti essenziali, coinvolgendo in un’esplorazione emozionale dei segreti più autentici, in un mixi di mistero e tranquillità.

Journées Particulières
15-16 giugno 2013
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