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Channel: La Vie C'est Chic
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STYLE_La marinière

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Si è soliti pensare alla moda come al mondo dell’effimero. Tuttavia, vi sono oggetti che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del costume; creazioni che hanno rivoluzionato il senso dello stile e nei quali si riflettono i cambiamenti della società. Capi ai quali ogni stilista ha dovuto inevitabilmente guardare, citandoli, rielaborandoli o riproponendoli.
Tra questi, a ragion veduta si può annoverare la marinière, la maglia bianca a righe blu, con le maniche a tre quarti e lo scollo a barchetta: un must nel guardaroba dei cugini e delle cugine d’Oltralpe, complice la lungimiranza di Mademoiselle Coco Chanel alla quale va il plauso di aver sottratto dall’universo dell’abbigliamento maschile – e in particolare, dagli abiti da lavoro – stimoli e intuizioni che, con qualche aggiustamento, si sono rivelati nel tempo (e ancora oggi) insostituibili alleati nella definizione di un nuovo ideale di femminilità ed eleganza.
Correvano i primi del ‘900: si tratta dell’epoca in cui le località di mare sono travolte da un boom turistico senza precedenti. Da quelle del Nord e dell’Ovest, affacciate sull’Oceano Atlantico, a quelle della Costa Azzurra, che si specchiano nel mar Mediterraneo, si tratta delle mete più ambite dalla borghesia cittadina che aveva imparato a conoscerle scappando dalle città bombardate. Saint Tropez e Biarritz sono le località balneari più chic: ben presto diventano la via di fuga preferita dalle parigine snob. Chanel è tra queste, ma, a differenza loro, non si limita a godere il relax di un dolce far niente. A Deauville nella bassa Normandia, nel 1913, apre la sua prima boutique fuori dalla capitale. A Parigi Mademoiselle si era già fatta un nome grazie ai suoi originalissimi cappellini e a un certo giro di clienti che la seguono anche quando nella boutique di Rue Gontaut-Biron, tra il Gran Casinò e il lussuoso Hotel Normandie, inizia a proporre una moda comoda, sportiva, adatta a donne dinamiche e anticonvenzionali.Una moda che strizza l’occhio alle mise dei marinai che lavorano al porto, ritenute da Coco estremamente chic. È così che la maglia a righe, nel 1917, entra di diritto fra i capi più riconoscibili dello stile Chanel: un capo attorno al quale si declina uno sfaccettato look navy. Negli anni la stessa Chanel indosserà la marinière, abbinandola a pantaloni morbidi e scarpe basse.
Tuttavia, quando la stilista la fa diventare il lessico di una nuova eleganza, la maglia bretone vanta di diritto una storia pluridecennale. È datato 27 marzo 1858 il decreto che introduce e codifica l’uso della singolare uniforme da parte dei marinai francesi in Bretagna. Realizzata in maglia di lana o di cotone, la particolare divisa deve essere bianca e decorata esattamente con 21 righe orizzontali blu, dello spessore inferiore ai due centimetri: un numero non casuale, bensì corrispondente alle vittorie di Napoleone. Da capo con finalità meramente pratica e con una connotazione di classe ben precisa, a icona di stile per intere generazioni. Da Jean Seberg a Pablo Picasso, la marinière diviene il capo simbolo del mondo della cultura. Indossata da Patti Smith e dalle giovani e spregiudicate attrici della Nouvelle Vague, così come da Jeanne Moreaue Andy Warhol, che la impone ai frequentatori della sua factory, a cominciare dalla glamourissima Edie Sedgwick. Anche l’ex enfant prodige della couture francese – Jean-Paul Gaultier– non sa resistere al suo fascino e se ne appropria, trasformandola in un marchio di fabbrica del suo inconfondibile stile al punto da utilizzarla per firmare il pack del popolarissimo profumo Le Male, lanciato nel 1994: un ponderoso torso maschile sul quale è stilizzata una maglia bretone.

Ma la marinère incanta anche la settima arte. È indossata, infatti, da Tadzio in “Morte a Venezia” di Luchino Visconti e Brad Davis in “Querelle de Brest” di Rainer Werner Fassbinder. Un cerchio che si chiude, comprendendo nei suoi meandri ogni forma di espressione artistica. A dimostrazione – e validazione – che la moda ha sempre afferito con successo e inequivocabile significato il mondo che ci circonda.

ART & CULTURE_Palazzo della Ragione Milano

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Cosa succede se Comune di Milano, Civita, Contrasto e GAmm Giunti mettono insieme le loro forze nel perseguimento di un ambizioso progetto culturale? Poco vi è da dirsi se non che nasce uno spazio espositivo permanente e interamente dedicato alla fotografia, allestito presso gli ambienti duecenteschi di Palazzo della Ragione in Piazza dei Mercanti. Palazzo della Ragione Fotografia – così si chiama il progetto – presenterà al pubblico di estimatori, cultori e appassionati grandi mostre e suggestivi allestimenti. Già in questi mesi è visitabile (sino al 2 novembre) Genesi, viaggio immaginifico attorno al mondo e immersi nella natura di SebastiãoSalgado.

Dopo questa eccezionale apertura, il programma espositivo continuerà con altre importantissime esposizioni che faranno di Palazzo della Ragione un nuovo riferimento culturale per la città, luogo di socialità, incontro e confronto.
Fine Novembre 2014-Aprile 2015: William Klein, ABC
La mostra, già presentata in parte alla Tate Modern di Londra e al FOAM di Amsterdam, è una fantastica retrospettiva che racchiude il lavoro dell’eclettico William Klein, non solo fotografo, ma anche artista, cineasta, designer e scrittore. Si tratta di una grande esposizione che riempirà gli spazi di Palazzo della Ragione con un impianto speciale e rinnovato di nuova produzione, creato per l’occasione attraverso un ricco allestimento multimediale.
Fine Novembre 2014-Aprile 2015: Walter Bonatti, Nei grandi spazi

Walter Bonatti (Bergamo 1930-Roma 2011) negli anni è riuscito a conquistarsi un privilegio raro: la possibilità di vivere due vite. Dopo la stagione di scalate, che lo hanno reso uno dei protagonisti della storia dell’alpinismo, ha deciso di cambiare i suoi orizzonti e mettersi in cammino alla volta delle regioni più lontane e affascinanti del pianeta dimostrando con il suo esempio, le sue parole e soprattutto le sue immagini come l’uomo sia parte della natura. I suoi reportage fotografici lo hanno fatto diventare un mito del nostro tempo, e un riferimento assoluto anche per i giovani di una vita vissuta in armonia.
In un montaggio innovativo di testi, oggetti e immagini, la mostra ricostruisce lo spirito e il senso di un’esperienza così particolare come quella di Walter Bonatti: cosa significhi percorrere e “abitare” i grandi spazi.
Maggio 2015-Settembre 2015: Grand Tour ITALIA. Viaggio nel nostro paese attraverso 80 anni di grandi fotografie
L’Italia è sempre stata una delle destinazioni preferite dai fotografi. La loro ricerca si è concentrata sulla bellezza tipica dell’Italia, sul nostro modo di vivere, sull’umanità dei cittadini del nostro paese, sui drammi e le particolarità della nostra storia e dei personaggi che l’hanno tracciata.Grand Tour Italia vuole esplorare questo bagaglio prezioso di immagini, esperienze e visioni con una serie di proposte espositive che raccoglieranno e presenteranno al pubblico il lavoro collettivo di quei fotografi che, in momenti diversi, e con sensibilità individuale, hanno colto gli aspetti principali della vita del nostro Paese.
Ottobre 2015: 
Edward Burtynsky, Watermark
Edward Burtynsky è uno tra i più conosciuti ed apprezzati fotografi canadesi. Nato nel 1955 da famiglia ucraina a St. Catharines (Ontario), lo stesso artista riconoscerà come decisivo per la sua formazione la presenza, nei luoghi della sua città natale, degli impianti della General Motors, che contribuiranno ad orientare Burtynsky verso una personalissima indagine del rapporto fra natura ed industria. Le sue opere sono incluse in collezioni pubbliche e private di tutto il mondo.
Il progetto WATERMARK - certamente il più ambizioso e significativo fra quelli sino ad ora realizzati da Burtynsky - documenta la portata e l’impatto della produzione e consumazione delle risorse idriche nel mondo. Le fotografie, scattate in 10 diversi paesi e per lo più “dall’alto” (aereo o elicottero), mirano a stimolare riflessioni intorno alla, spesso sottovaluta, importanza e centralità dell’acqua per l’uomo e per la terra, che emerge con particolare forza in quelle non rare immagini dove l’acqua è in realtà assente, grazie al suggestivo effetto prodotto dalla sua mancanza.
La mostra si inserisce all’interno del Festival dell’Acqua, promosso da Federutility, che per l’edizione 2015 sarà ospitato all’interno dei padiglioni di Expo 2015.
Novembre 2015- Febbraio 2016: James Nachtwey, Pietas

James Nachtwey è considerato universalmente l’erede di Robert Capa: la sua lista di riconoscimenti include i maggiori premi a livello internazionale - e non solo di fotografia. Nachtwey è l’epico testimone delle crudezze della guerra, l’unico fotografo cui la rivista Time ha dedicato un servizio di copertina con testi e immagini tutte sue. Pietas è una mostra-installazione dove luce e tenebra si alternano in una danza quasi infinita.
La mostra sarà l’occasione per conoscere e apprezzare il lavoro di un grande narratore visivo del nostro tempo e allo stesso tempo riflettere sul nostro tribolato “tempo di guerra”.

Palazzo della Ragione Fotografia
Piazza dei Mercanti
Milano

ABOUT_Welcome to NY Monsieur Dior!

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Christian Diore gli Stati Uniti sono legati da una storia di passione reciproca, che nasce insieme alla Maison e che da allora non si è mai interrotta. Questa storia comincia con un colpo di fulmine: quello dell’americana Carmel Snow, caporedattrice del celebre magazine Harper's Bazaar, che assiste alla prima sfilata di Christian Dior il 12 febbraio 1947. Assolutamente entusiasta esclama “It’s quite a revolution, dear Christian! Your dresses are wonderful, they have such a new look!”. Ben presto questa dichiarazione appassionata farà il giro dell’America: il New Look è sulla bocca di tutti e non tarderà a contagiare tutte le donne. Nel settembre 1947, pochi mesi dopo il successo della sua prima sfilata, Christian Dior è il primo francese a ricevere un Oscar della moda a Dallas conferitogli dai grandi magazzini Neiman Marcus. Per ritirare il premio, il couturier si imbarca sulla Queen Elizabeth  per un viaggio attraverso gli Stati Uniti, da New York a Los Angeles, passando per San Francisco, Chicago, Boston, Washington. Una storia che continua nei decenni, anche molto tempo dopo la scomparsa dello stilista fondatore. Tutta Hollywood è innamorata delle creazioni della Maison: Grace Kelly, Marilyn Monroe, Marlene Dietrich e Elizabeth Taylor ieri, Natalie Portman, Charlize Theron o Jennifer Lawrence oggi.

Un legame, quello di Dior con gli Stati Uniti, emblematico per l’evoluzione della Maison. Le star del cinema fanno risplendere l’elegante femminilità delle silhouette del couturier sul set, in città e sui red carpet di tutto il mondo. Ma è soprattutto New York il fulcro di questa liaison appassionata. “New York mi è diventata familiare quasi quanto Parigi “, scriveva Christian Dior nella sua autobiografia. Ed è proprio in questa città che la Maison ha aperto il suo flagship store americano, al pianterreno di una torre di vetro illuminata da un’enorme silhouette New Look. Ed è sempre a New York che hanno sfilato due collezioni croisière della Maison, nel 2006 e nel 2008. E lì, ancora, che la Maison ha riaffermato il suo legame con l’arte contemporanea partecipando come maggior mecenate al gala annuale del museo Guggenheim di New York, nel novembre 2013. Ed è lì, infine, che lo scorso marzo il prestigioso Council of Fashion Designers of America ha attribuito a Raf Simons il premio internazionale per il lavoro svolto chez Dior. Ed è sempre lì, dulcis in fundo, che presentando la sua collezione croisière 2015, la Maison ha scritto una nuova pagina della storia d’amore che da sempre la lega agli Stati Uniti.

STYLE_Lucky Lusyano®: Be Lucky, wear Lusyano

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Una deliziosa scatoletta giocata sulle nuance dell’écru e del blu, chiusa da un nastro in gros-grain: già il pack prelude al meglio. Un’esperienza sensoriale, che prosegue con l’apertura della stessa e la scoperta di un delizioso papillon della linea Hawaiian-Tai, realizzato in una meravigliosa seta italiana a stampa floreale e accompagnato da un biglietto informativo che recita “Ogni singolo papillon è accuratamente fatto a mano dal nostro selezionato team di sarti presso il nostro studio in Italia. Il nostro vasto portafolio è realizzato in-house e disponibile sul nostro sito web luckylusyano.com e in selezionate boutique nel mondo”. A chiosa, Be Lucky, Wear Lusyano. E se lucky dobbiamo essere, con questi papillons sicuramente riusciremo nell’intento. Tripudio di artigianalità, senso dello stile e raffinatezza, le creazioni Lucky Lusyano® racchiudono quello spirito di italianità tanto idolatrato in tutto il mondo: qualità delle materie prime, cura dei dettagli, artigianalità delle lavorazioni sono i cardini su cui si fonda l’attività di questo brand sempre più proiettato in un’ottica prospettica nel sano ed autentico recupero della tradizione passata. Sense of humor e style si mixano sapientemente in questi deliziosi papillons, dando vita a creazioni uniche, ironiche ma eleganti al tempo stesso, valide alleate per siglare le cifre del ben gusto e dar vita a mise inconfondibili. Il tutto senza ostentare, perché i papillons Lucky Lusyano® splendono di luce propria, vantando inimitabili requisiti stilistici e produttivi.
Un nome, quello di Lucky Lusyano, che affonda le sue origini in un passato leggendario. Nato nel periodo medievale del XIV secolo durante il carnevale Siciliano, Lusyano divenne famoso per due principali motivi: la passione per i papillons fatti a mano e il grande amore per Ysuig, conosciuta durante la sua permanenza in Estremo Oriente. La donna, una nota sarta dell’epoca, apprese da Lusyano l’arte del cucire a mano, iniziando, così, a disegnare e realizzare modelli di papillons, divenuti, in men che non si dica, vere e proprie opere d’arte apprezzate in tutto il mondo. Un legame coronato dal matrimonio dei due e tanto forte da spingere Lusyano ad attribuirsi l’appellativo Lucky.
Oggi come allora, i papillons Lucky Lusyano sono realizzati interamente a mano in Italia, dove vengono selezionate anche le materie prime, prediligendone, ça va sans dire, qualità e pregio. Un passaggio tanto dettagliato quanto fondamentale per la realizzazione di un original Lucky Lusyano è l’abbinamento dei tessuti, da effettuarsi con criterio e oculatezza al fine di individuare gli accostamenti migliori e più congeniali a soddisfare le esigenze di una clientela sofisticata. Da un simile processo di ricerca e sperimentazione, dove nulla è lasciato al caso, bensì è frutto di studi e applicazioni continui, nascono tre collezioni - Classic, Unique e Luxury– in grado di rispondere anche alle richieste più stravaganti. Tutto ha inizio con la realizzazione di un carta modello: una volta approvato, si passa alla definizione di materiali, ricami e dettagli e, successivamente, al processo di “imbastitura”. A corollario, la rifinitura con il cinturino con chiusura Velcro®, studiato per offrire una soluzione di chiusura semplice ma raffinata e di cui Lucky Lusyano® è pioniere da sempre.
Numerosi di modelli tra cui scegliere, passando da creazioni più minimal ad altre più estrose, sempre e comunque nel segno dell’eccellenza e dell’unicità: 1790 Revolution, 1920’s New York, Crazy Jungle, Hawaiian-Tai, Jeans Lusyano, Monte Carlo Gala solo per citarne qualcuno. Nomi che evocano universi, invitando a un’innocente evasione, armati di un’eleganza senza eguali. E quindi via libera a questo magico viaggio, sulle ali di un papillon alla volta di lidi sconosciuti, in bilico tra leggenda e realtà. Con un unico e inconfutabile principio: per essere Lucky, bisogna indossare Lusyano.


LEISURE_Feeding the mind

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Una storia di persone, paesaggi e rapporti armoniosi con la terra, suggellata dalle note a tema messe come sottofondo musicale. Ma non è tutto…camminando si calpestano chicchi di caffè da cui si sprigiona un ulteriore aroma che, per un istante, fa immaginare di camminare nei magici luoghi immortalati dal fotografo. Tatto e gusto, anche se non coinvolti direttamente, risultano in ogni caso chiamati in causa: è impossibile, infatti, non prefigurarsi il gusto pieno e deciso di questa bevanda, gustata in un momento di relax o di sana convivialità o, ancora, in un rituale quotidiano che accompagna la nostra giornata. Un’esperienza sensoriale a tuttotondo che invita a immedesimarsi nei gesti antichi della coltivazione, della raccolta, della essiccazione e della selezione del caffè: una tradizione perpetuata di generazione in generazione e catturata dallo sguardo impareggiabile di uno dei maggiori fotografi contemporanei qual è SebastiãoSalgado.


Un percorso narrativo che - dal chicco alla tazzina e da oggi sino all’esposizione universale - esplora i valori e i territori di illy e li propone attraverso l’arte contemporanea, da sempre il linguaggio d’elezione del brand. Dalle origini al futuro, in una perfetta ottica temporale che vede l’eredità del passato come chiave d’accesso per il domani.
La collaborazione conSalgadoè un ulteriore risultato dell’attenzione che illy da sempre pone ai temi dello sviluppo sostenibile, del rispetto delle culture localie dell’amoreperlaterra. Questo si esprime in un costante rapporto di collaborazione con i coltivatori: una relazione improntata al rispetto, allo scambio, alla crescita, e orientata a un miglioramento del prodotto unito al miglioramento delle condizioni di vita per i coltivatori e le loro comunità.
Lo stretto legame con i Paesi produttori di caffè, il rispetto per la terra e le culture locali sono proprio al centro del progetto che illy ha iniziato con Sebastião Salgado nel 2003: un viaggio fotografico alla ricerca delle radici della cultura del caffè che il famoso fotografo ha intrapreso attraverso i Paesi e le piantagioni da cui illy acquista i preziosi ingredienti del proprio blend. Brasile, India, Etiopia, Guatemala, Colombia, Cina e, ora, Costa Rica e Salvador sono i Paesi sin qui immortalati.

Le foto di Salgado per illy saranno protagoniste del Cluster del Caffè, il padiglione tematico dedicato alla nera bevanda che illy curerà per Expo 2015 nel suo ruolo di Official Coffee Partner dell’Esposizione Universale di Milano.

ART & CULTURE_Made in Italy. Una visione modernista

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In occasione dell’apertura della XXV edizione di AltaRomAltaModa, è stata inaugurata presso le sale del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia di Roma la mostra “Made in Italy. Una visione modernista. Johnny Moncada - Gastone Novelli - Achille Perilli”, a cura di Valentina Moncada, in collaborazione con Ludovico Pratesi, accompagnata dalla presentazione dell’omonimo volume, realizzato grazie al sostegno della Fondazione Nando Peretti.
Altaroma, da sempre fermamente convinta che la moda sappia esprimersi attraverso linguaggi contemporanei, attraverso la valorizzazione delle radici culturali e storiche e di binomi quali “moda e arte”, “moda e fotografia”, “moda e design”, rintraccia nel patrimonio di questo archivio un interessante spunto di riflessione e ispirazione.
Riemergono solo oggi, con la fondazione dell’Archivio Johnny Moncada e dopo cinquant’anni, le foto che documentano una straordinaria collaborazione tra il fotografo di moda Johnny Moncada e gli artisti Gastone Novelli e Achille Perilli per la realizzazione dei cataloghi delle collezioni di moda di Luisa Spagnoli, 1956- 65.
Nello studio Johnny Moncada, nello storico cortile di Via Margutta 54, dove anche Gastone Novelli aveva il suo atelier, Luisa Spagnoli, stylist e collezionista d’arte contemporanea, ha l’intuizione di dar vita ad uno strepitoso sodalizio tra arte e moda, un contesto visionario e modernista assolutamente innovativo ed esclusivo per il suo tempo: si viene così a creare un universo femminile in cui la donna moderna è circondata dalle figure, dalle immagini e dai segni dell’arte dei due artisti che insieme realizzano le ambientazioni e gli sfondi per i set fotografici, popolati inoltre da oggetti di design come la sedia “Lounge chair” di Luciano Grassi, Sergio Conti, Marisa Forlani, e lampade ispirate al design di Bruno Munari.
Una prima fase di questa collaborazione si svolge nello studio con la realizzazione estemporanea degli sfondi dipinti direttamente su rotoli di carta bianca, davanti ai quali le famose modelle dell’epoca, come Joan Whelan (moglie di Johnny Moncada), Iris Bianchi e Anna Filippini, indossano principalmente capi di prêt- à-porter e la maglieria di angora che ha definito lo stile informale ed elegante della nota casa di moda. Una seconda fase coinvolge gli artisti nella realizzazione dell’impaginato grafico degli stessi cataloghi, rivelando un design assolutamente all’avanguardia.
Questa incredibile collaborazione, così importante all’epoca, si rinnova costantemente nell’arco di nove anni ed è testimone non solo dell’evoluzione della moda italiana, ma anche del lavoro di questi artisti e dei movimenti culturali che coinvolgono Roma, con l’apertura verso l’avanguardia internazionale e l’attività diimportanti gallerie presenti nella capitale in quegli anni.
Per la prima volta viene presentata una ricostruzione storica delle dinamiche creative avvenute nello studio fotografico. Esposte, 60 fotografie, scelte tra le 600 ritrovate grazie a un attento lavoro di ricerca a cura di Emanuele Condò, accuratamente pulite e restaurate dal fotografo Corrado De Grazia, e circa 20 opere su tela e carta degli artisti Novelli e Perilli realizzate negli anni 1956-1965, mettendo in relazione gli sfondi realizzati per i set fotografici con disegni e opere stilisticamente affini. Inoltre, alcuni abiti vintage di Luisa Spagnoli della Collezione di Enrico Quinto e Paolo Tinarelli.Ad accompagnare il percorso espositivo, un inedito video artistico a cura di Valentina Moncada e Maria Chiara Salmeri, volto a ricreare il contesto storico della nascita del Made in Italy.
Queste fotografie rappresentano una concreta testimonianza del rapporto tra arte e moda nato negli studi d’artista di Via Margutta attraverso il rapporto d’amicizia che ha legato il fotografo Johnny Moncada agli artisti Novelli e Perilli e a Luisa Spagnoli, nipote omonima della capostipite che al tempo, con sensibilità seppe cogliere una modalità innovativa per intrecciare moda, arte e fotografia.

Made in Italy. Una visione modernista. Johnny Moncada - Gastone Novelli - Achille Perilli
Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Piazzale di Villa Giulia 9, Roma

Fino al 30 Settembre 2014

LEISURE_Sebastião Salgado – Genesi

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Il mondo come era, il mondo come è; la terra come risorsa magnifica da contemplare, conoscere, amare. Questo è lo scopo e il valore dell’ultimo straordinario progetto di Sebastião Salgado, Genesi, in mostra fino al 2 novembre 2014 presso Palazzo della Ragione di Milano.
In mostra oltre 200 fotografie eccezionali: dalle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea ai ghiacciai dell’Antartide, dalla taiga dell’Alaska ai deserti dell’America e dell’Africa fino ad arrivare alle montagne dell’America, del Cile e della Siberia. L’esposizione è un viaggio fotografico nei cinque continenti per documentare, con immagini in un bianco e nero di grande incanto, la rara bellezza del nostro principale patrimonio, unico e prezioso: il nostro pianeta.
Fotografie realizzate andando alla ricerca di quelle parti del mondo ancora incontaminate, di quei segmenti di vita ancora intatta, in cui la Terra appare ancora nella sua grandiosa bellezza e dove gli elementi, la terra, la flora, gli animali e l’uomo, vivono in un’armonia miracolosa, come in una perfetta sinfonia della natura.
La mostra è suddivisa in cinque sezioni che ricalcano le zone geografiche in cui Salgado ha realizzato le fotografie: Il Pianeta Sud, I Santuari della Natura, l’Africa, Il grande Nord, l’Amazzonia e il Pantanàl.
In ogni scatto esposto, natura, animali ed esseri viventi sono in perfetto equilibrio con l’ambiente. Fiore all’occhiello le fotografie che ritraggono animali, impressi nell’obiettivo di Salgado attraverso un lungo lavoro di immedesimazione con i loro habitat naturali. Il fotografo ha infatti vissuto nelle Galapagos tra tartarughe giganti, iguana e leoni marini. Ha viaggiato tra le zebre e gli altri animali selvatici che attraversano il Kenya e la Tanzania, rispondendo al richiamo annuale della natura alla migrazione.
Esposte, inoltre, le immagini che mostrano diverse varietà incontaminate di popolazioni indigene: gli Yanomami e i Cayapó dell’Amazzonia brasiliana; i Pigmei delle foreste equatoriali del Congo settentrionale; i Boscimani del deserto del Kalahari in Sudafrica; le tribù Himba del deserto namibico; le tribù delle più remote foreste della Nuova Guinea. Salgado ha trascorso diversi mesi con ognuno di questi gruppi indigeni per raccogliere una serie di scatti che mostrassero popolazioni in totale armonia con gli elementi, con le piante native e con gli animali selvatici.
Le immagini di Genesi, in un bianco e nero lirico e di grande potenza, sono una testimonianza e un atto di amore verso il nostro mondo. Viaggio unico alla scoperta del nostro ambiente, questo progetto rappresenta il tentativo, perfettamente riuscito, di realizzare una sorta di grande antropologia planetaria, ma, al contempo, è anche un grido di allarme e un monito affinché si cerchi di preservare questo mondo ancora incontaminato, per far sì che nel tempo che viviamo, sviluppo non sia sinonimo di distruzione.
Una mostra che si spinge oltre la mera presentazione artistica e creativa, mirando a evocare, emblematicamente, un percorso potenziale verso la riscoperta del ruolo dell’uomo in natura. Da qui il nome Genesi, quasi a suggellare un ritorno alle origini del pianeta: all’aria, all’acqua e al fuoco da cui è scaturita la vita; alle specie animali che hanno resistito all’addomesticamento; alle remote tribù dagli stili di vita cosiddetti primitivi e ancora incontaminati; agli esempi esistenti di forme primigenie di insediamenti e organizzazione umane. Stati di eterea bellezza, dove la purezza – e perfino l’innocenza – regnano sovrane.

Sebastião Salgado – Genesi
Palazzo della Ragione, piazza dei Mercanti 1, Milano

Fino al 2 novembre 2014

ART & CULTURE_A occhi aperti. Quando la Storia si è fermata in una foto

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Abbas, Gabriele Basilico, Elliott Erwitt, Paul Fusco, Don McCullin, Steve McCurry, Josef Koudelka, Paolo Pellegrin, Sebastião Salgado, Alex Webb.Queste foto, che hanno plasmato il nostro immaginario collettivo, mi hanno spinto ad andare a cercare i loro autori per farmi raccontare il momento in cui hanno incontrato la Storia e hanno saputo riconoscerla”, così afferma Mario Calabresi, giornalista e direttore de La Stampa nonché autore del libro A occhi aperti, un punto di vista privilegiato della fotografia narrato dalla viva voce di alcuni tra i più  grandi fotografi dei giorni nostri che hanno catturato l’immediatezza di un momento, cristallizzandola nel tempo.
Un libro che diviene mostra. Fino all’8 febbraio 2015, infatti, presso le Sale delle Arti della Reggia di Venaria, è aperta al pubblico l’esposizione A occhi aperti. Quando la Storia si è fermata in una foto. A cura di Alessandra Mauro e Lorenza Bravetta, si tratta di una produzione esclusiva ed inedita per La Venaria Reale realizzata dal Consorzio La Venaria Reale con Contrasto e Magnum Photos a partire dalla pubblicazione di Mario Calabresi (edito Contrasto).
“Cosa potremmo sapere, cosa potremmo immaginare, cosa potremmo ricordare dell’invasione sovietica di Praga se non ci fossero, stampate nei nostri occhi, le immagini di un “anonimo fotografo praghese”, che si scoprì poi chiamarsi Josef Koudelka? Quanta giustizia hanno fatto quelle foto, capaci di raccontare al mondo la freschezza e l’idealismo di una primavera di libertà. Ci sono fatti, pezzi di storia, che esistono solo perché c’è una fotografia che li racconta”.
Così ha scritto Mario Calabresi che, appassionato di fotografia, ma anche e soprattutto di giornalismo e realtà, ha intrapreso un viaggio molto speciale: un viaggio profondo ed affascinante nella storia recente, cercando alcuni dei “testimoni oculari” che con il loro lavoro, e la voglia di scavare tra le pieghe della cronaca, hanno raccontato alcuni momenti straordinari del nostro presente in una serie di immagini realizzate con gli occhi ben aperti sul mondo. Ne è nato un libro, A occhi aperti, appunto, che ha raccolto le interviste, vibranti e palpabili, a dieci grandi fotografi, dieci testimoni del nostro tempo.
Il progetto del libro è diventato un’imperdibile mostra nella straordinaria cornice della Reggia di Venaria: attraverso le oltre cento fotografie esposte, lo stesso Mario Calabresi ci accompagna in un viaggio coinvolgente che offre al visitatore la possibilità di guardare il mondo da una prospettiva incredibilmente privilegiata: quella degli occhi dei grandi reporter. Ecco allora Paul Fusco che racconta i funerali di Bob Kennedy; Josef Koudelka che descrive il mondo, condannato all’oblio, degli zingari dell’Europa dell’est. E poi Steve McCurry e la sua Asia ancora sconosciuta. E ancora, le foto di 'interni' di Abbas per testimoniare lo sconcerto della rivoluzione in Iran culminata con l'occupazione nel novembre del 1979 dell'Ambasciata americana da parte degli studenti 'barbuti', o quelle di Don McCullin, capace in modo sconcertante di fotografare il dolore nel viso e nei gesti disarmanti delle vittime della violenza delle guerre di Cipro e del Vietnam. E molti altri ancora. Per ognuno di loro Calabresi ha un aneddoto da raccontare, con l'entusiasmo, verrebbe da dire, di un bambino. Forse il bambino che è stato lui stesso, come ha voluto raccontare, quando, già all'età di 12 anni, si appassionò alla fotografia grazie all'intercessione prima del suo patrigno, poi di un suo zio, Attilio Capra che il fotografo lo faceva di professione e che gli trasmise quella passione.

A occhi aperti. Quando la Storia si è fermata in una foto
Reggia di Venaria, Torino

Fino all’8 febbraio 2015

LEISURE_Abiti e gioielli a Palazzo Pitti

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Pitti Uomo 86: sfilate, ma non solo. Hanno troneggiato, infatti, opening, special event, inaugurazioni di mostre. Tra queste svetta “90 Years of Excellence and Passion”, esposizione di gioielli realizzata in occasione dei novant’anni di attività di Damiani, l’unica azienda del settore, tra quelle note a livello internazionale, ancora in mano alla famiglia del fondatore. A fare da scenario, la sontuosa sala del Fiorino di di Palazzo Pitti, antica reggia granducale. Fino al 7 settembre prossimo sarà possibile ammirare una selezione di oggetti di alta gioielleria: oltre ai 18 pezzi che nel corso degli anni hanno vinto il Diamonds International Award, considerato l’oscar del gioiello, vi sono una decina di gioielli storici, scelti tra i tanti che sono stati prodotti, rappresentativi di ogni decennio di attività.
Da Charleston degli anni ‘20, nel quale il clima d’epoca è sottolineato da una leggera piuma accessoria, a Cascade, nel quale la linearità della struttura e l’alternanza dei diamanti bianchi e neri lo avvicina al modernismo tipico degli anno ‘30. Un decennio difficile come quello degli anni ‘40 è rappresentato da Legend, un gioiello nel quale la sagoma corposa si avvicina a quella della ruota elemento meccanicistico per eccellenza legato ai temi del lavoro.
Tassel, tipico gioiello anni ‘50, si caratterizza per la sua morbidezza che quasi riprende le forme della passamaneria. Optical, come il nome suggerisce, è la realizzazione che identifica gli anni ’60; mentre per i ‘70, con una chiara allusione ai "figli dei fiori”, viene proposto Bloom. L’opulenza del decennio successivo porta Damiani a realizzare Tribute, un bracciale bombato nel quale sono inserite anche pietre semipreziose. Con gli anni ‘90 viene introdotta la perla in varie nuances e infatti viene presentato Moonshine, mentre il nuovo secolo è rappresentato da D.Side che trae ispirazione dalla collezione che Silvia Damiani ha realizzato in collaborazione con Brad Pitt. Infine Diamantissima, un gioiello double face del 2010 in cui da un lato compaiono diamanti neri e dall’altra quelli bianchi. Dieci "capolavori” dell’arte orafa che sottolineano oltre alla creatività italiana anche l’artigianalità e il "saper fare” che Damiani ha esportato nel mondo.
Tra i gioielli esposti anche Chakra, un prezioso colier in diamanti e oro bianco che la famiglia Damiani donerà al Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, arricchendo e attualizzando la collezione che fu dei Medici.

Contemporaneamente sempre a Palazzo Pitti, a evocazione delle contaminazioni tra moda, stile, cultura e storia, alla galleria del Costume, rimarrà aperta fino ad agosto l’esposizione “Il manto di corte di Donna Franca Florio”. L’imponente capo, recentemente restaurato, fu realizzato nel 1902 da una maison parigina, presumibilmente dalla Maison Worth, quando Franca Florio divenne dama di corte della regina Elena. Il manto, in raso di seta avorio damascato e guarnito da ricamo con canutiglia e paillettes e strass, è posto scenograficamente su una scala ed evidenzia la finezza e la sontuosità della realizzazione. Figura protagonista della vita elegante e mondana dell’Ottocento e del Novecento, è attualmente rappresentata nella selezione espositiva biennale “Donne protagoniste nel Novecento,” attraverso due splendidi suoi capi: un ulteriore manto di corte in velluto blu guarnito da cordoncino dorato con nodi Savoia e l’abito in velluto nero con cui la ritrasse il Boldini.
 Affiancano in mostra l’opera, due splendidi abiti da gran sera entrambi usciti dalla Maison Worth di Parigi, uno dei quali presenta molta affinità con il manto. Ciascuno dei tre capi ha richiesto una diversa tipologia di procedimento di restauro; il manto e l’abito in raso, si presentavano danneggiati a causa dell’intervento di carica della seta che con il tempo prosciuga le fibre e su cui si è intervenuti, in parte come nel manto, procedendo ad ago, mentre si è cercato di riattivare vecchie adesivazioni che interessavano l’abito. Il terzo capo in tulle ricamato ad applicazione di perline in vetro soffiato, è stato in passato consolidato ad ago, fissando il tulle originale entro due strati a sandwich di tulle moderno.

ABOUT_Diana Vreeland Parfums

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Diana Vreeland: icona di femminilità, giornalista, imperatrice della moda. Una personalità unica nel suo genere, che ha dettato le regole dello stile e dell’eleganza, del buon gusto e del vestir bene, rivoluzionando le pagine del costume internazionale e consacrandosi nell’olimpo delle persone indimenticabili.
Nei trentacinque anni in cui è stata prima Fashion Editor di Harper’s Bazaar US e poi direttore di Vogue US, Diana Vreeland è riuscita a cambiare le regole del mondo della moda. Nel 1971 ha istituito il Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York, ha ridefinito l’importanza della moda nella storia del costume e per prima ha introdotto la couture contemporanea in ambito museale.
A lei è ora dedicata la collezione di fragranze Diana Vreeland Parfums concepita da un’idea di Alexander Vreeland, nipote di Diana, e nate dalla ricerca dei laboratori francesi di Iff, leader mondiale nei profumi.
Cinque essenze che ne incarnano la poliedrica personalità: teatrale, colorata, positiva, sagace e ironica. Cinque essenze che già nel nome ne evocano lo spirito, rifacendosi alle sue citazioni originali: Extravagance Russe, un generoso aroma di resine e ambra; Absolute Vital, una lussuosa nota di sandalo e rosa; Perfectly Marvelous, mix ponderato di gelsomino e cashmeran; Outrageously Divine, bouquet di cassis, patchouli e rosa; Simply Divine, tripudio di fiore di tuberosa.
A Fabien Baron, fondatore di Baron & Baron, invece, il compito di creare il flacone di vetro con lo stesso tono di rosso amato da Diana Vreeland. Quasi a non tradire la sua abitudine ad esagerare tutte le proporzioni, in un concertato rimando di visioni e ricordi, il tappo del flacone di vetro è stato sovradimensionato, ma nel rispetto di un’eleganza tipica degli anni ‘20.

La collezione Diana Vreeland Parfums sarà presentata in anteprima da 10 Corso Como giovedì 4 settembre dalle 18.00 alle 21.00 alla presenza di Alexander Vreeland. Per l’occasione, alle 18.00 e alle 19.30 verrà proiettato il film “Diana Vreeland: The Eye Has to Travel”, di Lisa Immordino Vreeland (82’, USA, 2011). Le proiezioni proseguono tutti i giorni fino a domenica 7 settembre alle 18.00.

STYLE_I pezzi culto di Yves Saint Laurent

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Yves Saint Laurent, giovanissimo erede di Monsieur Christian Dior nell’interpretazione più fedele del concetto di alta moda e, in seguito, pioniere del fenomeno del prêt-à-porter, nell’intento, azzeccato, di mettere a disposizione abiti belli e di stile per i giovani, ha dato vita prima ancora che a una grande maison, emblema universale di raffinatezza ed eleganza, a uno stile inconfondibile, caratterizzato dalla resa femminile di numerosi pezzi del guardaroba maschile nonché da alcuni capi iconici che hanno proiettato il suo mito ai giorni nostri e ben oltre.
Pensando al suo ineguagliabile lavoro di stilista, subito il ricordo corre allo smoking, primo elemento del guardaroba maschile a essere declinato nella versione femminile, segnando un punto di svolta epocale nella storia della moda. E proprio questa commistione di generi sarà la cifra stilistica della sua vena creativa. Una commistione che guarderà alla moda come forma d’arte tout court, contemplandone gli aspetti multiformi, atti a premiare le forme di contatto con le molteplici espressioni figurative.
Il tracciato artistico di Yves Saint Laurent sarà segnato da alcuni capi che ritorneranno in ogni sua collezione e attorno ai quali svilupperà la sua intera vena creativa. Oggi come allora, figurarseli significa identificare la sua cifra, assaporando una raffinatezza caratterizzata per compostezza delle linee, equilibrio dei volumi e cura dei dettagli.

La robe Mondrian
Presentato per il defilé autunno-inverno 1965 e in rottura rispetto alle altre maisons che erano ancora solite creare modelli che esaltassero la silhouette, per realizzare quest’abito dritto a forma trapezoidale Yves Saint Laurent si è ispirato all’opera di Mondrian. Una collezione audace, che fondava il suo essere sull’utilizzo del colore. Un colore forte e deciso, declinato nelle cromie primarie di rosso, giallo, blu, combinate con il bianco e il nero. Fu un successo elogiato dalla stampa americana, che gli valse il soprannome di “Roi de Paris”.
Alla base, la contaminazione tra arte e moda: Yves Saint Laurent, infatti, fu un gran collezionista e mecenate, appassionato di opera e teatro. Una vocazione grazie alla quale le ispirazioni si moltiplicarono all’infinito, fino ad arrivare a plasmare le creazioni con tratti unici e inconfondibili. E l’arte molte altre volte confluirà nella sua moda: nel 1980, infatti, sarà la volta di Matisse e di una collezione che ne evocherà le tele cangianti; mentre, nel 1988, di Picasso. Con lo spiccato intento, come ribadì più volte a gran voce Yves Saint Laurent, non tanto di misurarsi ai grandi maestri, quanto, piuttosto, di approcciarli, avvicinarsi il più possibile al loro estro e trarne dei preziosi insegnamenti.

Lo smoking
Da quando, nel 1966, sdoganò lo smoking maschile nel guardaroba femminile, adattandolo alla silhouette sinuosa delle donne, Yves Saint Laurent è entrato di diritto nell’olimpo dei divini. A lui il plauso di aver legittimato una commistione di generi intrapresa già anni prima da Mademoiselle Chanel ma in modo diverso: un capo sino ad allora prettamente maschile, assume un’audacia nuova e inimmaginabile. Nella sua serietà formale, nel suo rigore e nella sua compostezza, diviene uno dei capi che meglio esaltano la femminilità, sprigionando sensualità e intrigo.
Un capo che diviene icona di uno stile, ma, ancora di più, di una tendenza in atto proprio in quegli anni: lo smoking, infatti, rifletterà l’emancipazione femminile degli anni ’70. Come dirà lo stesso Yves Saint Laurent, “…ho sempre voluto mettermi al servizio delle donne. Ho voluto accompagnarle in questo grande movimento di liberazione…”.E la creazione del primo smoking è l’emblema di tutto ciò, il capo che forse più di ogni altro racchiude lo spirito della sua creatività, al punto di divenire uno dei momenti più significativi e uno degli elementi inconfondibili della sua carriera.

L’abito di ispirazione africana
Bisogna correre alla collezione primavera-estate 1967. Yves Saint Laurent crea modelli ispirati all’Africa, in cui confluiscono luoghi, tempi, colori e visioni lontani. Un invito all’evasione; un viaggio in un luogo incantato; un’esplorazione magica nei confini dell’inconnu, facendosi rapire dal mal d’Africa, che spinge a tornare e ritornare in questi posti unici. Yves Saint Laurent utilizza materiali nuovi per la moda come perle di legno, rafia, conchiglie, divenendo precursore della moda etnica più volte citata nelle moderne evoluzioni del costume.

La sahariana
Presentata per la prima volta nel 1968, questo capo rappresenta in un certo qual modo la logica conseguenza della collezione di ispirazione africana dell’anno precedente. Diverrà un modello feticcio dello stile Yves Saint Laurent, che amerà proporla in tutte le sue collezioni future, declinandola di volta in volta vuoi per i volumi, vuoi per i materiali, vuoi per il taglio. Nato a Oran, in Algeria, lo stilista ha sempre guardato con una particolare affezione all’Africa e a tutto ciò che ne discende in fatto di stile, tradizioni e storia. La sahariana si colloca perfettamente lungo questa visione, autenticando lo spirito di Yves Saint Laurent: combinare i generi così come passato e futuro o, ancora, tempi e luoghi.

Il tailleur pantalone

Nell’ottica di contaminare il guardaroba femminile con capi maschili, Yves Saint Laurent recupera il tailleur pantalone, fino ad allora capo esclusivo di dandy e gentlemen, e lo plasma sulla silhouette delle donne, eguagliando i due generi e ponendoli sul medesimo livello sociale. “Se Mademoiselle Chanel ha liberato la donna, Yves Saint Laurent le ha donato il potere” ama affermare Pierre Bergé, compagno di vita e di lavoro del couturier. Un potere sempre più spiccato e vocato ad affermare l’indipendenza femminile: un messaggio forte, di rottura e non più inascoltabile, che ha segnato inequivocabilmente gli anni ’70. 

E se è vero che la moda rappresenta e testimonia le evoluzioni sociali, cosa meglio della sahariana, dello smoking, del tailleur pantalone, ossia della resa femminile di capi prima di prerogativa maschile, simboleggiano un cambiamento etico e culturale così significativo?

STYLE_Barbanera Shoes: scarpe a regola d’arte

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Alla base della concezione della scarpa vi è una filosofia che la colloca oltre il semplice mondo della moda, identificandola come qualcosa di ben diverso da un semplice accessorio. La scarpa comunica. Dice chi sei. A lei il compito di trasmettere l’impressione che un uomo ha e dà di sé. A lei, inoltre, il plauso o il gravoso compito, a seconda dei punti di vista, di validare e autenticare una mise, piuttosto che di declassarla a giudizi inqualificabili.
La scarpa, forse più di qualsiasi altro dettaglio, denota lo stile di una persona e quindi il senso del gusto, del bello e del ben vestire. Doti che esulano dalle tendenze fini a se stesse così come dall’universo di griffe e marchi. È qualcosa che si possiede e brilla di luce propria, conferendo alla persona un’impronta unica e speciale.
Sulla base di queste considerazioni nel 2011 prende vita il progetto Barbanera. A firmarlo e portarlo avanti, due coppie di fratelli, provenienti da settori diversi - uno dal campo della pubblicità e del lusso, un musicista rock e due imprenditori di generazioni differenti -, accomunate dalla passione per le scarpe artigianali e animate dalla convinzione– nonché dalla volontà - di affermare che lo stile è qualcosa che si riconosce solo quando lo si vede. A dare il nome al progetto, il famigerato pirata Barbanera, eroe romantico e seduttore, sintesi emblematica dello spirito di un brand che si rivolge a un uomo al di fuori delle mode e delle tendenze.
Che si tratti di calzature dandy o rispondenti a canoni più classici, in ogni caso partono da una sperimentazione scrupolosa, focalizzata sul sapiente utilizzo dei colori e la ricerca meticolosa dei materiali. Artigianalità e savoir-faire fanno il resto, conferendo alle creazioni Barbanera un’allure magica e ineguagliabile.
La produzione, interamente realizzata a mano, viene effettuata nel cuore della campagna toscana, dove regna sovrana la tradizione manifatturiera italiana. Piccoli articoli di lusso ottenuti grazie alla lavorazione Goodyear, brevettata nel 1839 da Charles Goodyear, l’inventore della scarpa “inglese”. Durante una prima fase la tomaia viene tirata e fissata manualmente alla forma in modo da ottenere la sagoma. Successivamente, il guardolo, costituito dalla fascia di cuoio che scorre lungo la scarpa, viene intrecciato con ago e filo alla tomaia stessa, alla fodera e al sottopiede in cuoio. Nel vuoto creatosi tra il sottopiede e la suola in cuoio viene inserito del sughero naturale così da ottenere un unico corpo accuratamente legato. Questa particolare tecnica di lavorazione richiede tempo e abilità manuale in quanto l’artigiano deve legare a mano ogni componente, passando da parte a parte lo spago. Culto del dettaglio, accuratezza delle diverse procedure e abilità manuale sono le caratteristiche fondamentali con le quali arrivare ad ottenere calzature uniche, vere e proprie cifre stilistiche di un codice vestimentario raffinato e sofisticato. A validazione di tutto ciò, i pellami utilizzati, forniti da una delle più prestigiose concerie presenti in Italia. La personalizzazione, infine, è l’elemento che fa la differenza, rendendo ancora più uniche le calzature Barbanera e conferendo quel senso di tailor made tanto prezioso quanto inimitabile.

Le ispirazioni arrivano da jazzisti come Chet Baker e Miles Davis, artisti del calibro di John Ruskin, scrittori come Ernest Hemingway e Joris Karl Huysmans. E poi musici, artisti ed esteti da cui le scarpe Barbanera prendono il nome. Per un mood bohemien, a tratti aggressivo. Per un’eleganza senza tempo, il cui vero lusso è dato dalla storia del prodotto, dal grande lavoro che c’è dietro e dalla grande qualità dei materiali.

BEAUTY_L'essenza di Coco in 14 flaconi

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Racchiudere il tempo in pregiati flaconi, imbottigliandone la preziosità e la speranza. Tanti piccoli distillati che compongono una prestigiosa e inedita collezione olfattiva, quintessenza di passato e futuro. Stiamo parlando del tempo diChanel. Un tempo che trasforma i ricordi in fragranze, rendendo immortale la storia della couturiere. Da qui nasce una famiglia di profumi che si snoda in due generazioni e compone la raccolta Les Exclusifs, che lo ricorda nella sua modernità. Il tutto per cogliere l’essenza di un’epoca. Questa fu la grande intuizione di Mademoiselle Chanel, la prima stilista ad aver creato dei profumi firmati col proprio nome. L’altra intuizione fu la scelta dell’artigiano dei suoi primi capolavori: Ernest Beaux. Negli anni 20, ancora dominati da essenze mono floreali, vestirono i profumi di abiti nuovi. Il N°5, ovviamente, è la prima vera rivoluzione: un profumo che non assomigliava a nessun altro già esistente sul mercato. Mademoiselle lo presentò al mondo con una frase che divenne poi celebre: “Una donna senza profumo è una donna senza futuro”. Ma ce ne sono altri, più riservati, che oggi fanno parte della collezione Les Exclusifs: dal N°22 (la seconda fragranza creata dal duo nel 1922), al Bois des Iles, Cuir de Russie, fino al Gardénia. “Il ricercatore in profumeria non è più un cuoco collezionista di ricette– diceva Beaux – ma uno sperimentatore e un creatore”. In ogni profumo, come in tutte le sue creazioni, Chanel metteva la sua vita e i suoi desideri. Storie e simboli che catturano un momento e che durano per l’eternità.
Oggi, Les Exclusifs si amplia. Così Jacques Polge, profumiere e creatore esclusivo, è il guardiano che custodisce le virtù olfattive della Maison e che continua a scriverne la storia fragranza dopo fragranza. Dal suo ingresso nella maison nel 1978, ha preservato la magia dei grandi nomi di Chanel e ha creato, a sua volta, nuove composizioni. I suoi profumi stupiscono, ma sembrano sempre trovare il loro posto nell’universo di Mademoiselle. Polge ha saputo creare i suoi Exclusifs che si ispirano a numeri, strade e case diventati simboli per la maison francese come 31 rue Cambon, l’epicentro dell’universo di Coco Chanel, oppure N°18, un albergo in place Vendôme che Mademoiselle vedeva dal balcone della sua camera al Ritz. Nove composizioni inedite che riflettono la filosofia di Mademoiselle: “Per essere insostituibili bisogna essere diverse”.
Così gli Exclusifs diventano una collezione di profumi rari: quattordici flaconi identici, in vendita ‘esclusivamente’ nelle boutique Chanel. Ogni fragranza racconta una storia che è solo sua e, al contempo, tutte parlano il linguaggio di Chanel. Un linguaggio singolare e universale, che fonde, come nessun altro, il passato, il presente, il futuro.

JERSEY
La materia prima dell'eleganza

 "Con il jersey ho liberato il corpo, abbandonato il punto vita”. Nei primi anni ‘20, Mademoiselle Chanel prende in prestito dal guardaroba maschile il tessuto che regalerà alle donne una nuova silhouette: il jersey. Considerato sino ad allora funzionale e grossolano, riservato alle maglie dei marinai e alla biancheria da uomo, grazie al suo tocco sapiente diviene lo strumento di una nuova eleganza femminile.

Con la stessa audacia creativa, Jacques Polge sceglie la lavanda. A lungo considerata maschile o modesta, associata all'igiene personale, ora viene meticolosamente selezionata e accuratamente distillata, rivelandosi rara, floreale, delicata e raffinata. Avvolta da muschi bianchi ed esaltata da un tocco di vaniglia, essa definisce un nuovo profilo olfattivo. Confortevole e sensuale, si concede alla pelle come un morbido Jersey CHANEL.

1932
Una costellazione di diamanti

Nel 1932, Mademoiselle Chanel fece cadere su Parigi una pioggia di stelle di diamanti. Nacque così una collezione di alta gioielleria. Jacques Polge rievoca questa collezione-costellazione con un fiore bianco. Prezioso ed estremamente femminile: il gelsomino.

Lavorato petalo dopo petalo per farne risplendere ogni sfaccettatura, rivela sulla pelle a poco a poco il suo lato sofisticato e voluttuoso

BEIGE

Un profumo di nettare.
 "Mi rifugio nel beige perché è naturale”, diceva Mademoiselle Chanel. Amava tutte le sfumature di questo colore che evoca la pelle e l'eleganza al tempo stesso. Dietro l'apparente semplicità cela una soave voluttà che si effonde lentamente per poi rivelarsi in tutta la sua essenza. Uno slancio di sensualità che Jacques Polge interpreta con questo bouquet di biancospino, fresia e frangipane dai riflessi mielati. Un meraviglioso mélange di petali bianchi e oro giallo… Un soffio di Beige.

N°22

Un profumo “di pelle”.
 Un intreccio di tulle, una pioggia di petali... Questo profumo, creato nel 1922, è una variazione leggera e impalpabile sul tema del magistrale N°5, lanciato l'anno prima da Coco Chanel ed Ernest Beaux. Nella sua grazia, il N°22 reca anche l'impronta della loro audacia: le aldeidi rafforzano e vivacizzano il bouquet di fiori bianchi, in cui sbocciano la Tuberosa, l'Iris e la Rosa d'Oriente. Un profumo soave e raffinato.

GARDÉNIA

Una creazione della fantasia. 

Mademoiselle prediligeva i fiori bianchi, puri e sensuali. Ma la Camelia, scelta come suo emblema, non ha odore. Quanto a bellezza, la Gardenia le assomiglia ma il suo profumo non può essere estratto. Per questo, Gabrielle Chanel ed Ernest Beaux creano un'evocazione magnifica del suo profumo soave. Nasce così un soliflor luminoso di assoluta femminilità. La voluttà della Mimosa e della Vaniglia ne fanno schiudere i petali, tanto ricchi da divenire cremosi. Un profumo che porta in sé la luce splendente dell'estate.

BOIS DES ILES
Un invito al viaggio.
 Parigi, 1926. L'Art Déco s'impone, l'esotismo affascina, il jazz scatena le passioni. Si sognano terre lontane e legni preziosi. Coco Chanel rivoluziona ancora una volta la storia dei profumi lanciando il primo boschivo femminile. Un profumo inebriante, caldo e sensuale, animato da volute avvolgenti. Un profumo che racchiude tutti gli ingredienti: legni preziosi, effluvi oppiacei e grandi fiori languidi. Il profumo è già di per sé un continente misterioso e lontano.

CUIR DE RUSSIE
Un profumo imperiale.
 L'influenza russa sulle creazioni di Mademoiselle nasce dall'incontro con il granduca Dimitri, cugino dello Zar Nicola II. Cuir de Russie, creato nel 1927, è la trasposizione sotto forma di profumo delle cavalcate selvagge, degli aromi di tabacco biondo e degli odori degli stivali di cuoio conciato con corteccia di betulla indossati dall'esercito russo. 
Questo profumo sensuale diffonde lentamente le fragranze selvatiche e fumé dei balsami, dell'Incenso e del Legno di Ginepro Rosso. Le note fruttate del Mandarino e del Bergamotto suggeriscono un tocco d'insolenza prima di lasciare posto alla grazia e alla fragilità dei fiori eterni: la Rosa, il Gelsomino e l'Ylang-Ylang. Di classe e dal carattere spiccato, nasconde i segreti ambigui della femminilità.

31 RUE CAMBON
Un profumo d'Alta Moda.
 L'epicentro dell'universo di Coco Chanel è al numero 31 di rue Cambon. Oggi come ieri, quattro piani raccontano la leggenda: la boutique, il salone di Haute Couture, l'appartamento privato di Mademoiselle, lo studio di creazione e gli atelier.
31 rue Cambon rivela la quintessenza dello stile CHANEL. Il suo accordo cipriato estremamente raffinato, caldo e vivace, si fa interprete d'eccezione dell'eleganza parigina. La persistenza cipriata dell'Irisdisegna una silhouette slanciata dal fascino malizioso, nato dalle note di Pepe Nero. Un profumo a immagine e somiglianza di Mademoiselle.


N°18

Un profumo di Alta Gioielleria.
 Il numero 18 di Place Vendôme è l'indirizzo prestigioso della boutique di Gioielleria CHANEL. Di fronte al Ritz, dove Mademoiselle ha a lungo abitato, sono esposti i gioielli più belli. Eco intima e luminosa come un diamante, il N°18 è un profumo meravigliosamente nuovo. Una fragranza satura di fiori d'Ambretta, un odore di lieto vagabondare, che ricalca la disinvoltura di Coco Chanel.

COROMANDEL

Un profumo d'arte.
 I preziosi paraventi di Coromandel sono intimamente legati all'universo di Gabrielle Chanel. Quest'arte cinese, eccezionale e meticolosa, bene illustra la concezione del lavoro secondo Mademoiselle: pazienza infinita e ricerca della perfezione. E nella magnificenza ornamentale dei suoi paravanti, Gabrielle Chanel trovava il suo rifugio.
Ricco di ingredienti preziosi come l'incenso, il benzoino e il patchouli, Coromandel è una rievocazione olfattiva di un Oriente barocco e passionale. Con il suo slancio di note ambrate, intenso e malizioso, evolve all'insegna della dolcezza, della grazia e della voluttà.

BEL RESPIRO
Il profumo dell'aria aperta.
 Nel 1920 Mademoiselle acquista una casa a Garches, vero e proprio paradiso bucolico per i parigini di allora. Tinteggiata di beige e con imposte nere, la villa Bel Respiro, soprannominata "Noix de Coco" (Noce di Cocco), si apre ben presto ad amici e artisti.
Il suo profumo rievoca una primavera romantica: una brezza leggera, l'odore dell'erba appena tagliata, le prime giunchiglie al sole. Da un giardino che si fa vero e proprio orto, si sprigionano gli aromi della gariga, del timo, del rosmarino e del basilico. Un bouquet delicato e idilliaco.

28 LA PAUSA
Il profumo della rarità.

 28 La Pausa rievoca l'omonima residenza di villeggiatura che Mademoiselle fece costruire nel 1928 nel sud della Francia. Una vista in lontananza sulla costa italiana, un invito al riposo, un fascino sobrio ed elegante. Le Bacche Rosa sprigionano una freschezza leggermente fruttata. Dal mare aperto, una ventata di Vetiver arricchisce l'aria di accenti boschivi. Ma prima di ogni altra cosa, Jacques Polge si è ispirato all'Iris: il profumo svela una creazione radiosa e delicata, semplice e lussuosa, terrosa e cipriata.

SYCOMORE
Un profumo tenace.
 Già nel 1930 Mademoiselle accarezzava l'idea di un profumo boschivo che s'imponesse in modo semplice e naturale. Ecco allora Sycomore, disegnato a immagine e somiglianza di un tronco asciutto, nobile e possente. Composto da Jacques Polge, è un'illustrazione perfetta della genialità in fatto di eleganza secondo Gabrielle Chanel: il lussuoso Vetiver, accompagnato da una leggera traccia speziata, seduce con la sua semplicità aristocratica e lascia un ricordo caldo e misterioso.

EAU DE COLOGNE

Un'Acqua di Colonia senza eguali.

 Già nel 1929 Mademoiselle inaugurava la moda dello sport e della tonicità del corpo. La sua passione per l'aria aperta la spinge a creare la sua Eau de Cologne, poi reinterpretata da Jacques Polge. Le esperidi della migliore qualità sono uno degli ingredienti di questa fragranza gioiosa e dinamica. Il Mandarino e il Bergamotto uniscono la loro freschezza frizzante alle note leggere del Neroli. Un'Acqua di Colonia generosa e deliziosamente floreale, per celebrare l'estate in tutta vivacità.

ENTERTAINMENT_Fashion film

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Alla vigilia della prima edizione di un festival italiano tutto dedicato ai fashion movie (Fashion Film Festival Milano, 14-15 settembre 2014), la mente corre ai corto e lungometraggi che in questi anni già hanno riproposto al grande pubblico i retroscena di un mondo affascinante e sfavillante quanto è quello della moda. Occhi discreti che, per certi versi, hanno svelato aneddoti e curiosità, portando sul grande schermo il dietro le quinte di un universo che prima di essere immagine e tendenza è storia, cultura, arte e business. Dati alla mano, per l’Italia il settore moda vale 34 miliardi di euro, con un totale di 236mila imprese dedicate e 821mila addetti. Centro della creatività, ça va sans dire, Milano con 1.600 realtà attive (fonte Camera di Commercio di Milano su dati Infocamere 2013 e 2012).
Statistiche a parte, numerosi sono gli esempi di fashion movie, vuoi che narrino la storia di maisons o stilisti famosi, vuoi che ripropongano per immagini i segreti legati ai personaggi che hanno segnato pagine indelebili della moda

Valentino – The last emperor
Documentario statunitense del 2008, diretto da Matt Tyrnauer, corrispondente speciale della rivista di moda Vanity Fair. La pellicola racconta gli ultimi due anni di attività dello stilista italiano Valentino Garavani. Per il film sono state girate oltre 250 ore di filmati, fra il giugno 2005 e il luglio 2007. Presentato alla 65esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il film è stato proiettato nei cinema statunitensi nel marzo 2009 e in quelli italiani il 20 novembre 2009. Numerosi i personaggi intervistati o mostrati, legati al mondo della moda e dello spettacolo, fra i quali si possono citare Tom Ford, Karl Lagerfeld, Matteo Marzotto, Joan Collins, Meryl Streep, Gwyneth Paltrow, Claudia Schiffer, André Leon Talley, Donatella Versace, Giorgio Armani, Valerio Festi, Anne Hathaway, Elizabeth Hurley, Diane Von Furstenberg, Alek Wek, Anna Wintour.
Il risultato? Un complesso ritratto di quello che, a ragion veduta, è stato davvero un “imperatore” dello stile. A Tyrnauer il plauso di offrire allo spettatore l’immagine di un grande creatore di moda, mostrando il processo di realizzazione dei suoi capolavori di stoffa nonché cogliendone le intuizioni geniali così come gli improvvisi mutamenti d’umore.
Ciò che più colpisce, però, è la storia che emerge con forza di una relazione durata 50 anni: quella tra Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti. Il rapporto tra i due è di stima, di affetto e di collaborazione piena. Il creativo Valentino si vede sgombrare la strada delle incombenze quotidiane dal manager Giancarlo. Assistiamo ai loro scontri, ma anche alla commozione che coglie il “freddo” stilista quando ringrazia pubblicamente chi lo ha sostenuto e accompagnato così a lungo nella vita. Non deve essere stato semplice né per il protagonista né per chi lo seguiva riuscire a scalfire la cortina di riservatezza che è dipinta sul volto dello stilista. Ma l’obiettivo è stato raggiunto. Con classe, come lo stile Valentino esige.

Yves Saint Laurent L’amour fou
Il film, a firma del regista-fotografo Pierre Thoretton, tramite le parole di Pierre Bergé, compagno di vita e di lavoro di Yves Saint Laurent, fa rivivere l'arte del maestro dell'haute couture che sapeva caricare le sue creazioni di una vitalità dirompente, anche se, nella vita privata, una velata malinconia scandiva le ore trascorse nelle proprie dimore da sogno. Un viaggio dai toni lunari e umbratili, in cui si svela una personalità complessa e fragile, che segnerà il contemporaneo come un grande pittore o architetto. Ma anche una riflessione sulla fama, il lusso, la solitudine. Dagli inizi al fianco del maestro Christian Dior all’amore per il teatro e la letteratura (Marcel Proust in testa), passando per il talento visionario, la creatività multiforme di uno stile raffinato e innovatore – è stato il primo a far indossare i pantaloni alle donne - e le collezioni ricche di suggestioni provenienti dall’arte (Mondrian) e dai luoghi di tutto il mondo (Africa, Spagna, India, Marocco, Russia), fino ad arrivare all’amicizia con i più grandi artisti del suo tempo (un nome su tutti, Andy Warhol).
“Ho avuto la fortuna di diventare assistente di Christian Dior a 18 anni, di succedergli a 21 anni e di conoscere il successo con la mia prima collezione nel 1958, 44 anni fa tra pochi giorni. Da allora ho vissuto per il mio mestiere e grazie al mio mestiere e sono fiero che le donne di tutto il mondo portino tailleur-pantalone, smoking, caban e trench. Mi dico che ho creato il guardaroba della donna contemporanea, che ho partecipato alla trasformazione della mia epoca. Mi si perdonerà di farmene un vanto, perché ho creduto da sempre che la moda non servisse solo a rendere più belle le donne, ma anche a rassicurarle, a dar loro fiducia, a permettere loro di essere consapevoli. Ogni uomo per vivere ha bisogno di fantasmi estetici. Io li ho inseguiti, cercati, braccati. Ho sperimentato molte forme di angoscia, molte forme di inferno. Ho conosciuto la paura e la terribile solitudine, la falsa amicizia dei tranquillanti e degli stupefacenti, la prigione della depressione e quella delle case di cura. Da tutto questo un giorno sono uscito, stordito, ma nuovamente in me. Marcel Proust mi aveva insegnato che la magnifica e lamentosa famiglia dei nevrotici è il sale della terra. Non ho scelto questa fatale discendenza, ma è grazie a lei che mi sono innalzato nel cielo della creazione, che ho frequentato i “ladri di fuoco” di cui parla Rimbaud, che ho trovato me stesso, che ho compreso che l’incontro più importante della vita è quello con se stessi. Nonostante questo, oggi ho deciso di dire addio a questo mestiere che ho tanto amato”. Con questo discorso intenso e pieno di amore per la moda, Yves Saint Laurent dice addio alle luci della passerella chiudendo definitivamente un’epoca. Da qui, dal famoso addio, Pierre Thoretton parte per raccontare il mondo Yves Saint Laurent: un mondo costellato di successi ma anche di momenti di grande malinconia. Il regista filma Pierre Bergé mentre prepara l’asta in cui saranno vendute le Opere d’arte della loro collezione privata: quadri, sculture, mobili, oggetti della memoria che troveranno una nuova dimora perché, come afferma lo stesso Bergé, “I becchini dell’arte verranno e porteranno via tutto. È una parte del mio cuore, una parte della mia vita e consegneranno tutto questo al fuoco delle offerte dell’asta. Ma, sapete, perdere qualcuno con cui si è vissuto, con alti e bassi, è un’altra cosa che vedere i propri oggetto d’arte andarsene.”
Yves Saint Laurent e Pierre Bergé si incontrano per la prima volta nel 1957, il giorno del funerale di Christian Dior: quando Yves succede a Dior ha solo venti anni, ma, nonostante ciò, la sua pima collezione si rivela un enorme successo, mostrando al grande pubblico una personalità destinata a diventare un grande nome della moda. A chi gli domanda cosa si prova ad essere il nuovo Dior, un timido Yves risponde: “Sono soprattutto molto commosso. Sono anche molto felice, ma soprattutto commosso al pensiero di Monsieur Dior.” Tre o quattro giorni dopo, Marie-Louise Bousquet (corrispondente dell’Harper’s Bazaar), decide di organizzare una cena in Place Blanche: in quell’occasione Yves e Pierre si conoscono e qualche mese dopo decidono di vivere insieme. Saint Laurentcontinua il suo lavoro come direttore creativo di Dior finché non viene convocato per fare il servizio militare (era il periodo della Guerra in Algeria) e sceglie di farsi riformare, decisione che porterà alla rottura con la Maison. Da lì nasce la decisione di fondare una propria casa di moda, un passo che richiede tempo e grandi sforzi. Pierre trova un investitore americano e il 29 gennaio del 1962 - in una stradina anonima del 6° arrondissement, lontano dal triangolo d’oro di Avenue Montaigne– viene lanciata la prima collezione di Yves Saint Laurent.È un immenso successo: “Certo, non pensavo che sarebbe stato tutto facile. Ma mi dicevo che tutto sarebbe stato possibile. E lo è stato…”, ricorda Bergé. Con la fama arriva anche l’infelicità e Yves cerca il conforto nella droga e nell’alcol, perché quell’incredibile pressione non è facile da sostenere. La sua vita è sempre più votata agli eccessi e Pierre, stanco di tutto questo, decide di lasciarlo: “Sono andato a vivere all’Hotel Lutetia. Non sono riuscito ad andare più lontano della fine della sua strada. Per me era molto difficile lasciarlo.” L’allontanamento di Saint Laurent dalla vita pubblica va di pari passo con il suo malessere, che non fa altro che crescere e peggiorare. “La gloria è lo splendido lutto della felicità. E Yves ne è la perfetta dimostrazione. La sua gloria gli ha portato solo una sofferenza dopo l’altra. Posso dire di averlo visto felice solo due volte all’anno, al termine della sua collezione, quando usciva tra l’acclamazione di una sala che si alzava in piedi per applaudirlo.”
Dopo una lunga malattia lo stilista si spegne nella sua casa di Parigi la notte del 1 giugno 2008, all’età di 72 anni. Le sue ceneri sono conservate nel Giardino Majorelledi Marrakech in Marocco, villa appartenuta al celebre artista francese e in seguito acquistata e ristrutturata da Saint Laurent e Bergé. Yves Saint Laurentè stato uno dei più grandi talenti della moda, un genio creativo che ha compreso la sua epoca meglio di chiunque altro e che, tuttavia, non l’ha mai amata. “Cosa dobbiamo dedurne? Probabilmente gli artisti, i veri artisti, dopotutto, vivono la propria vita parallelamente alla loro epoca, ma allo stesso tempo la trasformano.”


Yves Saint Laurent
Parigi, 1957. Yves Saint Laurent ha 21 anni e viene chiamato a prendere il posto del defunto Christian Dior nella cui maison ha già avuto modo di dar prova delle proprie qualità. Lo attende la prima collezione totalmente affidata alla sua creatività. Il successo ottenuto lo proietta ai più alti livelli della moda parigina imponendogli al contempo una continua pressione. Il ricovero per una sindrome maniaco-depressiva, in occasione della sua chiamata alle armi per la guerra in Algeria, fa sì che venga licenziato. Grazie al sostegno di Pierre Bergé, che ne diverrà il compagno e il factotum, lo stilista apre una propria casa di haute couture e YSL diverrà un marchio simbolo di eleganza e innovazione.

Jalil Lespert si inserisce con questo film nell'ambito del film biografico stando attento a non eccedere nella beatificazione del protagonista ed evitando anche di cadere nel gossip per immagini. Il film non ci propone solo il progredire della creatività di un artista in continua ed obbligata evoluzione(a un certo punto gli verrà fatto rilevare che è felice solo due volte l'anno: in primavera e in autunno quando presenta le nuove collezioni), bensì si spinge oltre: lo contestualizza, ad esempio, nella lacerante situazione di chi ha lasciato la natia Algeria (da cui anche il regista proviene) e sente il peso di dover rispondere ad interrogativi socio-politici a cui si vorrebbe che prestasse attenzione. La sua vita invece sta in quelle matite che muove con la rapidità di un pittore e da cui nascono abiti che sanno valorizzare le donne rimanendo al passo coi tempi e spesso anticipandoli.
Come Valentino Garavani con Giancarlo Gemmetti così per Yves è determinante l'incontro con Pierre Bergé. È il compagno a cui può appoggiarsi quando la sua forza creativa si muta in fragilità emotiva, è l'organizzatore e il manager. È colui che sa dare un valore commerciale alle sue creazioni, mentre Yves acquista una preziosa e antica statua di Buddha senza saperne neppure il prezzo. È a lui (interpretato da un partecipe Guillaume Gallienne) che Lespert affida la narrazione ed è il vero Bergé che ha consentito di esplorare il lato nascosto alle cronache di una relazione durata tutta una vita. Un rapporto in cui non sono mancati i tradimenti e che, per un periodo non breve, ha finito con il ruotare intorno a una donna. La modella Victoire diviene per entrambi un oggetto del desiderio e della gelosia che non li spinge mai a rinnegare od occultare la loro omosessualità ma li mette a confronto con quel mondo femminile per il quale entrambi ogni giorno elaborano e promuovono quegli altri oggetti del desiderio che hanno il nome di abiti di alta moda.


The september issue
Documentario statunitense incentrato sul mondo della moda e, in particolare, su Anna Wintour, la celebre direttrice di Vogue US, durante gli incontri di lavoro e le settimane della moda, raccontando i nove mesi di preparazione del numero di settembre della rivista, da sempre considerato il più importante in quanto caratterizzante le scelte editoriali di tutto l’anno. La pellicola è stata presentata in anteprima al Sundance Film Festival 2009, ottenendo il premio come Miglior Documentario. Ha inoltre partecipato a numerosi eventi fra cui il Full Frame Documentary Film Festival (2009), il Silverdocs Afi/Discovery Channel Documentary Festival (2009) e l’Edinburgh International Film Festival (2009).


Fashion sulla 5th Avenue
Vi sono cose e personaggi che caratterizzano un’epoca, un genere, un ambiente. Bergdorf Goodmanè una di queste, al punto di assurgere il ruolo di icona. Lo store della Quinta Strada, fondato a fine '800 da Herman Bergdorf e poi acquisito da Edwin Goodman che lo ha passato al figlio Andrew, è l'emblema del lusso nonché eco della storia degli Stati Uniti. Unico nel suo genere, è il luogo dove ogni stilista sogna di vedere esposti i suoi abiti. 
Teatro di sequenze cinematografiche famose (una per tutte la scena in cui Dudley Moore incontra Liza Minnelli in Arturo), citato in innumerevoli dialoghi, il tempio della moda è l'oggetto di questo documentario che intervista i grandi nomi del fashion, da Vera Wang a Oscar de la Renta, da Dolce&Gabbana a Narciso Rodriguez, ma anche gli stilisti che non hanno ancora avuto accesso all'edificio e vivono nell'attesa. Una sorta di visita guidata nel museo del lusso e dell'esclusività, dove le collezioni sono temporanee ma la fascinazione è permanente. Come ogni monumento che si rispetti, anche questa cattedrale del fashion ha le sue memorie sedimentate e le sue storie divenute leggendarie, come i cappellini di Jackie O', la volta in cui una barbona si presentò con una borsa piena zeppa di contanti o quella in cui Yoko Ono chiamò all'orario di chiusura una vigilia di Natale e, insieme a John Lennon, comprò ottanta pellicce, una per ogni membro del loro staff, spendendo qualcosa come cinquecentomila dollari. Ma c'è anche una storia tutta al presente, di personal shopper, di guru dello stile, di vetrine che hanno fatto sognare e continuano a farlo. E, tra tutti, è sicuramente il capitolo sulle vetrine il più affascinante e rappresentativo: curate come se si trattasse di vere e proprie installazioni d'arte contemporanea, rigorosamente differenti l'una dall'altra, ma legate da un tema che detta la religione del momento, le vetrine di Bergdorf sono un'esperienza drammatica nel senso teatrale del termine, un tripudio di oggetti che solleticano la cupidigia, oltre che un investimento a dir poco astronomico (ma evidentemente sempre ripagato). L'allestimento nottetempo di questi sontuosi fermo-immagine cinematografici, è un film nel film: dalla ricerca dei pezzi unici alla commissione di ogni tipo di manufatto ad artisti e artigiani, fino al trasporto e alla composizione "dell'inquadratura", la creazione delle vetrine di Bergdorf Goodman è il dispiegamento materiale dell'ideale del sogno americano del tutto-è-possibile, il trionfo dell'immagine, la ragione dell'esistenza di un luogo del genere, così inarrivabile - per lo meno nella sua totalità - da costituire un eterno oggetto del desiderio.
Il documentario esplora la storia, i meccanismi profondi e i segreti di questo magazzino, partendo dalla nascita come modesta bottega sartoriale per signore per arrivare a divenire il riflesso della cultura contemporanea. Per la prima volta il grande pubblico ha l’occasione di gettare lo sguardo dentro questo magico universo, carpendone i segreti: le leggende, le feste, le vetrine, le donne, i compratori e i clienti prendono nuovamente vita in questo ritratto dove creatività e commercio entrano in simbiosi.


Diana Vreeland - L’imperatrice della moda
Diana Vreeland: giornalista ma, prima ancora, icona di stile del ventesimo secolo.  A lei, imperatrice della moda, il plauso d’aver dettato le regole di gusto ed eleganza a un’intera generazione di celebrità. “L'occhio deve viaggiare”. Fu questo il mantra che guidò il lavoro della Vreeland come editor della rivista femminile Harper's Bazaar prima (a partire dagli anni Trenta) e come redattrice capo di Vogue America poi (dal 1962 al 1972). Un motto che la spinse a concepire i servizi di moda come reportage realizzati in giro per il mondo e strutturati come storie che suscitavano una visione romantica della moda. Il tutto all'insegna di un'originalità fuori dal comune.
Il documentario diretto da Lisa Immordino Vreeland, nipote della giornalista scomparsa nel 1989, racconta la vita e soprattutto la carriera di questo genio creativo e anticonformista, intollerante alla noia e alla banalità. Con l'ausilio di filmati di repertorio, scatti patinati, fotografie d'autore e interviste a familiari, collaboratori e amici della Vreeland, la regista tratteggia il ritratto scanzonato, leggero e colorato di una donna divenuta simbolo di bellezza pur non essendo affatto bella (la madre la trattava come il brutto anatroccolo di famiglia). Una donna che si propose di emergere in un mondo dominato dagli uomini, imponendo la figura della ragazza ambiziosa e stravagante e anticipando le tendenze, incurante degli scandali (come quando sdoganò il bikini e i blue jeans). Numerose le dive lanciate dalla caporedattrice dalle pagine di Vogue: da Lauren Bacall a Twiggy, da Brigitte Bardot a Cher, da Lauren Hutton ad Angelica Huston a Marisa Berenson. Alcune raccontano la loro esperienza nel documentario, al pari dei fotografi di successo (su tutti Irving Penn) che hanno messo il loro talento al servizio dell'estro di Diana Vreeland e degli stilisti che la stessa ha contribuito a consacrare nell’olimpo dei divini (come Missoni, Valentino, Calvin Klein e Oscar de la Renta). Ma sono soprattutto gli estratti delle interviste alla stessa Diana Vreeland che compongono il quadro di una donna irriverente e dall'energia vulcanica, che adorava la mondanità e i fermenti culturali della Parigi della Belle Epoque, in cui nacque, e che trovò nel fervore libertario, giovanilistico e anticonformista degli anni Sessanta le più fertili condizioni di ispirazione. 
”Non conta tanto il vestito che indossi, quanto la vita che conduci mentre lo indossi” era solita affermare: un principio identitario che caratterizzò il suo lavoro fino alla fine. Dopo l'avventura di Vogue, infatti, si impegnò come consulente tecnico dell'Istituto del costume del Metropolitan Museum of Art, che osò trasformare in una sorta di night club, con sommo scandalo dei benpensanti e straordinario successo di pubblico e celebrità. 
Una dedizione alla carriera, quella di Diana Vreeland, che la portò a trascurare la vita familiare, come emerge dalle interviste ai figli, che la dipingono come “una donna priva di emozioni, che non si interessava alle cose convenzionali da madre ordinaria”. Sono queste le uniche ombre in un ritratto che predilige i chiari agli scuri, come se la regista non volesse macchiare l'agiografia della Vreeland, rispettando la volontà della stessa giornalista, che preferiva parlare della sua straordinaria carriera piuttosto che della vita privata.


Obiettivo Annie Leibovitz
Interessante documentario che racconta il lavoro - e in parte anche la vita - di una delle più importanti fotografe al mondo: Annie Leibovitz. Dall'adolescenza nomade per seguire il padre, militare di carriera, agli anni di "Rolling Stones", dalla svolta glamour alla scoperta  dell'impegno accanto a Susan Sontag fino al set di Maria Antonietta, impressiona la quantità di luoghi e persone, celebri e non, che la fotografa americana ha ritratto nel corso del tempo. Nel film, diretto dalla sorella Barbara, Annie Leibovitz si racconta, passando dagli anni ’60 passati a San Francisco ad insegnare prima arte e poi a fotografare influenzata da grandissimi maestri come Robert Frank ed Henry Cartier-Bresson fino al suo ingresso al giornale Rolling Stone, dai primi successi alle immagini come quelle scattate a Bette Midler tra migliaia di rose rosse o a John Lennon e a Yoko Ono, fotografati da lei insieme cinque ore prima l’omicidio del musicista.
A corollario il libello Dietro una lente: vita e fotografie di Annie Leibovitzdi Luca Scarlini, critico e scrittore, che racconta l'itinerario artistico  della Leibovitz, provando anche a spiegare le ragioni e i segreti di un successo planetario.

Coco avant Chanel. L’amore prima del mito
Film biografico del 2009 diretto da Anne Fontaine, interpretato da Audrey Tautou e nominato agli European Film Awards, BAFTA Awards, Premi César, Premi Magritte e agli Academy Awards. La pellicola racconta la storia della stilista francese Gabrielle Coco Chanel, dalla povertà e dai primi lavori come cabarettista fino alla nascita della Maison di alta moda, quintessenza di eleganza e raffinatezza. Parallelamente, viene raccontata la sua più grande storia d’amore con Boy Chapel. 

Gabrielle è una giovane donna abbandonata dal padre e cresciuta in un orfanotrofio, dove ha imparato l'arte del cucire. Di giorno è impiegata come sartina in un negozio di stoffe troppo lontano da Parigi e di notte canta canzonette stonate per soldati ebbri di donne e di vino. L'incontro con Étienne Balsan, nobile e villano col vizio dei cavalli, introduce Coco in un mondo di pizzi, ozi e carezze. Insofferente alla vita edonistica e determinata a conquistare il suo posto nel mondo, troverà ispirazione nell'amore per Boy Capel, un gentiluomo inglese che corrisponde il suo sentimento, intuisce la sua grazia naturale e asseconda le sue inclinazioni. Le sue mani, guidate dal cuore, confezioneranno cappelli per pensare e abiti per emancipare (rigorosamente in jersey). Coco avant Chanel punta a svelare le dinamiche complesse che presiedono alla relazione fra l'universo nobiliare, quello borghese e quello proletario nella Francia del Primo Novecento. I tre mondi trovano una perfetta ed esatta dislocazione nei teatri e nelle tribune degli ippodromi, lungo i corridoi e le scale della villa Balsan in cui si svolge la storia e la vita di Gabrielle. Dialoghi e azioni contribuiscono a definire un confine esistente fra i piani: il brulicare frenetico di chi sta sotto a servire, la noia abulica che divora le relazioni degli inquilini del piano nobile servito. Tutto nel film funziona per nette opposizioni economiche, somatiche, cromatiche (gli abiti minimalisti e desaturati della protagonista contro quelli appariscenti e vivaci di Émilienne), a sottolineare e forzare la differenza tra l'orfana Coco e i figli "legittimi" della società altolocata. Ad abbattere l'agonia di una sovranità arcaica che gioca ancora a nascondino, sospesa e "in maschera" alle soglie della modernità, provvede una donna dotata di intelligenza e cultura, che punta sul fashion designfino ad innalzarlo a strumento di potere e di emancipazione, colpendo con eleganza e sobrietà l'ordine sociopolitico maschile. 
Coco Chanel rappresenta una sorta di reazione creativa e attiva a una vita che poteva essere triste e ingrata, alle ipocrisie e alle ritualità della casta nobile, ai momenti codificati dell'etichetta e alle strutture del potere maschile. Dentro i suoi abiti i due livelli della società abbandonano la loro impermeabilità, lasciando scivolare sulla rivoluzionaria stoffa a maglia rasata elementi di continuità, come il contatto sessuale e quello sentimentale. Coco "spogliò" la donna dai condizionamenti culturali, che la immobilizzavano in una recita frivola, invitandola a dire (anche) attraverso ciò che indossa. I vestiti lasciano il posto ad altri vestiti ma il tailleur Chanel (ri)fà la donna.

PEOPLE_Robert Capa

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Endre Friedman – forse più noto come Robert Capa - nasce a Budapest il 22 ottobre 1913. Esiliato dall'Ungheria nel 1931 per aver partecipato ad attività studentesche di sinistra, si trasferisce a Berlino dove si iscrive al corso di giornalismo della Deutsche Hochschule fur Politik. Alla fine dell’anno, però, problemi economici famigliari non gli consentono di ricevere più il sostentamento necessario per pagarsi gli studi. Inizia quindi a lavorare come fattorino presso Dephot, un’importante agenzia fotografica di Berlino. Ben presto, però, il direttore Simon Guttam scopre il talento di Capa e decide di affidargli piccoli servizi fotografici sulla cronaca locale.A dicembre già gli spetta il primo incarico importante: fotografare Lev Trotzki a Copenaghen durante una lezione agli studenti danesi.
Robert Capa, però, di lì a poco, nel 1933, è costretto ad abbandonare Berlino, a seguito dell’ascesa al potere di Hitler: si trasferisce a Vienna e poi ritorna a Budapest. Qui trascorre l'estate e, per sopravvivere, lavora ancora come fotografo. Un soggiorno breve, interrotto dalla partenza per Parigi. Nella capitale francese incontra Gerda Taro, una profuga tedesca, di cui si innamora. In quello stesso periodo, Simon Guttmann lo invia in Spagna per una serie di servizi fotogiornalistici. Nel 1936, con la complicità di Gerda, decide di inventarsi un personaggio di fantasia con il quale spacciare a tutti il proprio lavoro, attribuendolo a un fotografo americano di successo. in poco tempo, però, viene scoperto: da qui l’esigenza di cambiare il proprio nome, diventando, così, Robert Capa.
Fotografa i tumulti di Parigi nell'ambito delle elezioni della coalizione governativa di sinistra nota come Fronte Popolare; con Gerda immortala la guerra civile scoppiata in Spagna e la resistenza di Madrid; è presente su vari fronti spagnoli, da solo e con Gerda, diventata nel frattempo una fotogiornalista indipendente. Nel luglio del 1937, però, il destino gli riserva una dura prova: mentre si trovava a Parigi per lavoro, Gerda va a fotografare la battaglia di Brunete a ovest di Madrid e, durante una ritirata, nella confusione, muore schiacciata da un carro armato del governo spagnolo. Un colpo dal quale Robert Capa, che sperava di sposarla, non si risolleverà mai.
Seguono gli anni dei soggiorni in Cina, dove fotografa la resistenza contro l’invasione giapponese, e in Spagna, dove testimonia, nel 1939, la capitolazione di Barcellona; e ancora, degli scatti realizzati ai soldati lealisti sconfitti ed esiliati nei campi d’internamento francesi.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale s'imbarca per New York, dove comincia a realizzare vari servizi per conto di Life. Ben presto, però, decide di tornare in Europa per realizzare reportage sulle attività belliche degli alleati in Gran Bretagna. Seguono i servizi fotografici sulle vittorie degli alleati in Nord Africa e in Sicilia, sui combattimenti nell'Italia continentale e sulla liberazione di Napoli.
Gli avvenimenti sono convulsi e richiedono la sua testimonianza diretta e visiva: nel gennaio del 1944 partecipa allo sbarco alleato ad Anzio; mentre il 6 Giugno sbarca con il primo contingente delle forze americane a Omaha-Beach in Normandia. E' al seguito delle truppe americane e francesi durante la campagna che si conclude con la liberazione di Parigi il 25 agosto; mentre a dicembre fotografa la battaglia di Bulge. Lanciatosi con il paracadute insieme alle truppe americane in Germania, fotografa l'invasione degli alleati a Lipsia, Norimberga e Berlino. Nel mese di giugno dello stesso anno incontra Ingrid Bergman a Parigi e inizia una storia che durerà due anni.
Terminato il conflitto mondiale, diventa cittadino americano. Trascorre alcuni mesi a Hollywood dove scrive le sue memorie di guerra con l’intenzione di adattarle a  un copione. Ben presto, però, si rende conto che il mondo del cinema non fa per lui e parte da Hollywood alla volta della Turchia per effettuare le riprese di un documentario.
Nel 1947, insieme con gli amici Henri Cartier-Bresson, David Seymour (detto "Chim" ), George Rodger e William Vandivert fonda l'agenzia fotografica cooperativa "Magnum. Per un mese viaggia in Unione Sovietica in compagnia dell'amico John Steinbeck. Si reca anche in Cecoslovacchia e a Budapest e visita l'Ungheria, la Polonia e la Cecoslovacchia con Theodore H.White.
La sua opera di testimone del secolo è instancabile. Dal 1948 al 1950 effettua tre viaggi in Israele. Durante il primo realizza servizi fotografici sulla dichiarazione d'indipendenza e i combattimenti successivi; negli altri due si concentra invece sul problema dell'arrivo dei primi profughi. Trasferitosi nuovamente a Parigi, assume il ruolo di presidente della Magnum, dedicando molto tempo al lavoro dell'agenzia, promuovendo i giovani fotografi. Accusato di comunismo, gli Stati Uniti gli ritirano il passaporto, impedendogli per alcuni mesi di viaggiare e lavorare. Come se non bastasse, problemi di salute lo costringono al ricovero.
Nel 1954 parte per il Giappone. Giunge ad Hanoi come inviato di Life per fotografare la guerra dei francesi in Indocina. Il 25 maggio accompagna una missione militare francese da Namdinh al delta del Fiume Rosso: durante una sosta del convoglio lungo la strada, Capa si allontana in un campo insieme con un drappello di militari dove calpesta una mina anti-uomo, rimanendo ucciso.

L'anno successivo, Life e Overseas Press Club istituiscono il Premio annuale Robert Capa"per la fotografia di altissima qualità sostenuta da eccezionale coraggio e spirito d'iniziativa all'estero". Vent'anni dopo, spronato in parte dalla volontà di mantenere in vita l'opera di Robert Capa e di altri fotogiornalisti, Cornell Capa, fratello e collega di Robert, fonda l'International Center for Photography a New York.

STYLE_Lebole Gioielli - Samarcanda, la via della Seta

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Lebole Gioielli torna con una collezione che, mantiene inalterato lo spirito del brand, ossia evocare luoghi magici e lontani come l’estremo Oriente, accennandone la preziosità, la storia, il fascino e la cultura.
Samarcandail nome della nuova linea di bijoux, pensata per l’autunno/inverno 2014 e creata con tessuti Ikat di Antichi Kaftani Uzbeki. Ikat, che letteralmente significa nuvola,è un tipo di tintura dove parte dei filati vengono protetti tramite una stretta legatura per non essere tinti, mentre le parti non legate si colorano. L’iridescenza creata dai tessuti permea i colori di luce, ombre e trasparenza, che si presentano diverse ogni volta, in continuo movimento.
La coppia di orecchini è asimmetrica: il Kaftano, che è il perno della collezione, si può accoppiare con la sagoma di un’architettura o con il cammello.
Nomi come Samarcanda, Ikat, Uzbekistan evocano miti e leggende, portando a quando il nome di Tamerlano risuonava in tutta l’Asia Centrale, o a quando la seta legava l’Oriente all’Occidente. I tessuti raccontano la storia di tutto il mondo, racchiudendo l’evolversi delle civiltà e il susseguirsi degli imperi. Per secoli la cultura di ogni popolo è stata tessuta nei fili della trama e dell’ordito dei loro manufatti, giungendo a noi in tutto il suo splendore.
Il poeta Uzbeko Gafur Gulyam diceva: “Se desideri imparare la storia dei nostri tessuti, sarà tuo maestro lo stesso Khan Atlas. I suoi colori brillano come la corrente di un fiume, e anche il sole è parte della sua creazione”. Questa citazione rimanda alla leggenda secondo la quale molto tempo fa, uno dei KHAN (governatore) di Margilan, che aveva già quattro mogli, s’innamorò della bellissima e giovane figlia di un artista e decise di sposarla. A quell’epoca la quinta moglie non era riconosciuta legalmente, quindi l’artista-padre si arrabbiò con il Kahn per le sue intenzioni e gli chiese di modificare il suo desiderio. Il Khan promise di rinunciare ad una sola condizione: che l’artista producesse, prima della mattina successiva, qualcosa di più bello di sua figlia stessa. L’artista si disperò tutta la notte. All’alba uscì e sedette sulla riva di un torrente. Ad un certo punto vide le nuvole e tutti i colori dell’arcobaleno riflessi nell’acqua. Fu folgorato dall’idea di copiare su un tessuto la bellezza che aveva visto. E così fece. Il pezzo di stoffa, nato dall’amore del padre per la figlia, fu portato al Khan. Il Khan fu sorpreso, perché non aveva mai visto niente di così bello; accettò il tessuto artistico e lasciò cadere la proposta di sposare la figlia del pittore. Da qui il tessuto fu chiamato Khan-Atlas, proprio perché era stato inventato per il Khan.


LEISURE_Giorgio Armani Films of City Frames

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Addentrandosi nel merito del progetto, ogni scuola ha selezionato i talenti più promettenti dei rispettivi corsi ai quali è stato affidato il compito di girare short film con una precisa missione: raccontare frammenti di vita, emozioni, sguardi, segni, captati e filtrati attraverso gli occhiali della collezione Giorgio Armani Frames of Life.
Films of City Frames, in particolare, rappresenta una sorta di progetto nel progetto e segna una nuova tappa nell’ambito di Frames of Life, iniziativa avviata nel 2010 con l’obiettivo di raccontare, in chiave cinematografica, storie di vita vera dove l’elemento costante è la presenza degli occhiali: oggetti da cui è impossibile separarsi, strumenti con cui vivere intensamente ogni attimo, cogliendone anche la più piccola delle sfumature.
Focus di Films of City Frames, la valorizzazione di giovani talenti, partendo dagli occhiali Giorgio Armani - da sempre molto amati dallo stilista, tanto da essere riuscito a trasformarli in veri e propri accessori moda. Nel progetto, gli occhiali, che caratterizzano fortemente il volto delle persone e dei personaggi, sono elemento percettivo, strumento attraverso il quale osservare la realtà, catturare sensazioni e vivere avventure nelle diverse città che diventano per l’occasione i set di sei film.
Le varie fasi di produzione dei corti sono state raccontate attraverso una sezione dedicata sul sito www.framesoflife.come condivise sui canali social Armani. Films of City Frames, pertanto, è divenuto una sorta di collage visivo e narrativo in grado di catturare l'incalzante ricchezza delle metropoli contemporanee, usando l'individualità dei punti di vista come filtro e carattere.
Le scuole che hanno partecipato al progetto sono: Tisch, School of the Arts di New York; USC, School of Cinematic Arts di Los Angeles; Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma; NFTS, National Film and Television School di Londra; Esra, Ecole Supérieure de Réalisation di Parigi, Hong Kong Academy for Performing Arts.

A distanza di sei mesi, nell’ambito del Toronto International Film Festival 2014, palcoscenico d’eccellenza per la promozione dei giovani talenti cinematografici, Giorgio Armani ha presentato la première mondiale dei cortometraggi realizzati. A corollario, una tavola rotonda moderata da Imran Amed, fondatore ed Editor in Chief di The Business of Fashion, l’autorevole piattaforma editoriale online media partner dell’evento. Un esclusivo cocktail party ospitato da Roberta Armani e dal regista e produttore premio Oscar Edward Zwick presso l’iconica CN Tower, invece, ha chiuso la serata sulle note dj set di Mark Ronson.

BOOK_Ennio Capasa: Un mondo nuovo

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Un mondo nuovoè il titolo del nuovo libro di Ennio Capasa, patron del marchio d’alta mod CoSTUME NATIONAL, una realtà dall’anima made in Italy ma dalle ispirazioni cosmopolite, dove l’artigianalità si sposa con il concettualismo. Un volo pindarico attraverso l’avventura dello stilista, che ha inizio con la formazione in Giappone. Un viaggio nello stile e nel costume, intesi nel senso dell’eleganza e del buon gusto, che rappresenta un viaggio nell’anima delle tradizioni, in perfetto equilibrio tra Puglia e Zen.
Correva l’anno 1983 quando Ennio, poco più che ventenne, lascia la sua Puglia per Tokyo. Lì incontra Yohji Yamamoto, uno dei geni della moda degli anni ’80. L’atelier non è un semplice spazio fisico…è una sorta di tempio ed è proprio lì, immerso tra le contaminazioni artistiche più pure, che inizia a capire le profonde differenze tra il mondo da cui proviene e quello in cui è arrivato. Differenze che non riguardano solo gli aspetti materiali del Giappone, bensì quelli radicati nella cultura: il carattere gerarchico e militaristico della società, il modo di lavorare, ecc. Un confronto continuo che genera inevitabilmente un inestimabile arricchimento: personale e di ispirazioni. Pochi anni più tardi, infatti, CoSTUME NATIONAL diventerà uno dei protagonisti principali delle sfilate mondiali.
Ennio Capasa nasce a Lecce. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Milano, decide di traferirsi a Tokyo dove diventa l’assistente di Yohji Yamamoto per due anni. Rientrato in Italia, nel 1986, fonda con il fratello Carlo CoSTUME NATIONAL, presentando lo stesso anno la sua prima collezione donna ampiamente apprezzata dal pubblico e dalla stampa.
Designer e direttore creativo di CoSTUME NATIONAL, Ennio Capasa si contraddistingue per la sua estetica iconografica, minimal, chic e rock’n’roll. Il suo stile viene definito dalla stampa internazionale edgy-chic; il New York Times l’ha definito lo stilista che “ha ispirato e rivoluzionato la moda degli anni ‘90”.
Amante dell’architettura e dell’arte, collabora con il cinema, il teatro, il mondo artistico e musicale contemporaneo, avvalorando l’importanza e l’inevitabilità delle contaminazioni tra i molteplici linguaggi dell’arte. Ha lavorato – e continua a lavorare – con i più grandi artisti del panorama internazionale: Mick Jagger, Lady Gaga, David Bowie, Keith Richards, Willem Dafoe, Brad Pitt. Keanu Reeves, Tom Cruise, Marina Abramovic, Maurizio Cattelan, Michel Gondry, Giada Colagrande, Matteo Garrone, solo per citarne qualcuno.

Ennio Capasa

UN MONDO NUOVO
Collana Overlook

Pagine 184, € 18 Bompiani

ABOUT_Greta Garbo meets Salvatore Ferragamo

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L’incontro tra Greta Garbo, la “Sfinge svedese”, e Salvatore Ferragamo, il “Calzolaio dei sogni”, è un piccolo romanzo nella vita sorprendente di questi due grandi personaggi. La prima volta si sfiorano appena, giusto il tempo per creare un paio di scarpe su misura nel 1927 a Hollywood, prima che Ferragamo rientrasse a Firenze per avviare l’azienda in Italia. Poi, finché l’Hollywood Boot Shop, il negozio nella capitale del cinema, rimase di proprietà di Ferragamo, la diva si recò lì per i suoi acquisti, quindi da Saks Fith Avenue a New York. Fino a quando, nell’agosto del 1949, i due si rividero a Firenze. La Garbo entrò in negozio, calzando un paio di sandali dalle suole di corda: “Non ho scarpe” affermò “e voglio camminare”. In cinque riprese, Ferragamo creò per lei una serie di scarpe a tacco basso, tra cui un sandalo allacciato alla caviglia in vitello rosso particolarmente gradito dall’attrice. “Mentre passeggiava nel mio negozio con il suo primo paio di scarpe ai piedi, mi sorrise e le sue esclamazioni di gioia superarono le mie aspettative”, affermerà Ferragamo nella sua autobiografia “Il Calzolaio dei sogni”. Dalla boutique uscì con 70 paia di scarpe, per la maggior parte diverse soltanto nel colore.
La diva mantenne nel tempo un rapporto di reciproca stima e ammirazione con Ferragamo e numerosi furono i modelli che lui creò in esclusiva per lei. La “Divina” prediligeva scarpe a tacco basso o medio che ne esaltavano l’innata eleganza e che Ferragamo le declinava in una varietà di materiali e colori tipica del suo stile.
4 i modelli indimenticabili, nati per differenti occasioni d’uso, dal design attuale e dalla portabilità estrema, sintesi dei temi principali dello stile Ferragamo: l’utilizzo dei materiali umili o insoliti, la costruzione a zeppa, la ballerina passepartout. In altre parole, il simbolo di uno stile sofisticato senza eccessi.
Attica è la scarpa chiusa creata nel 1942; ha la tomaia in camoscio marrone e una fascia di vitello dello stesso colore che, partendo dalla zeppa in sughero, forma l’allacciatura laterale.
È datata 1950, invece, Cistia, il sandalo con tomaia a punta tonda in corda lavorata a rete. Ha il cinturino al collo del piede e il tacco medio di legno in vitello color cuoio.
Darana è la pantofola da sera formata da due pezzi distinti, la tomaia in velluto viola e il fondo del tallone chiuso nello stesso materiale. La tomaia a punta rotonda è scollata a V e ha un decoro centrale di paillettes argentate e perline di vetro ton-sur-ton. Il tacco basso è in cuoio, la soletta è ricoperta di capretto dorato, mentre la fodera e il sottopiede sono in capretto beige.

Ravello è la ballerina allacciata con tomaia in vitello intrecciato beige e punta leggermente sfilata, dei primi anni ’60. Caratteristica distintiva di questo celebre modello Ferragamo, estremamente femminile e confortevole, è la suola a conchiglia di cuoio che si estende al tallone, abbinata a un tacco basso e rotondo di legno ricoperto di cuoio. 

LEISURE_Bettina

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Icona indiscussa, modella fra le più celebrate e ricercate da stilisti e fotografi degli anni ‘40 e ‘50, Bettinaè un emblema della moda francese. Musa di Jacques Fath, è stata testimone privilegiata degli anni folgoranti che hanno attraversato la moda a Parigi: da Jacques Costet a Lucien Lelong, da Hubert de Givenchy a Christian Dior fino a Coco Chanel.
Nata nel 1925 e cresciuta in Normandia, Bettina sognava di diventare disegnatrice di moda. Animata da questo spirito, nel 1944 si trasferisce a Parigi, dove incontra Jacques Costet, giovane stilista che aveva appena aperto un piccolo atelier per presentare alcuni suoi bozzetti. Costet, affascinato dalla sua bellezza, termina l'incontro chiedendole di indossare un suo abito. Inizia da quel momento una straordinaria carriera di musa e modella: “guanti, cappelli, veli – era quell'epoca: mi piaceva posare, era un istinto e un piacere” (Fashion memoir, Thames and Hudson,1998).
Dopo Costet, Bettina lavora per un breve periodo con Lucien Lelong, per poi, nel 1947, legarsi a Jacques Fath, diventando la sua musa. Ammirato da Bettina, Fath disegna una collezione di abiti che “solo lei può indossare con naturalezza ed eleganza”, creando un nuovo stile. Nasce così il fenomeno “Bettina “ e il suo nome diventa sinonimo di modernità e stile.
Contesa dalle più importanti riviste di moda, è in breve tempo “la francese più fotografata di Francia” (Paris Match). Per strada, sulla spiaggia, nelle dimore più lussuose, tra i quadri di un atelier, nella semplice cornice di un fondale bianco, i più affermati fotografi realizzano immagini che hanno fatto la storia della fotografia di moda.
Nel 1952 incontra Hubert de Givenchy e lo aiuta ad aprire la sua maison nel doppio ruolo di modella e responsabile delle relazioni pubbliche. Givenchy le dedica la blusa “Bettina” immortalata dal famoso disegno di René Gruau. In questi anni viaggia molto in Europa ma anche negli Stati Uniti, Brasile, Argentina, stringendo amicizia con intellettuali, attori, registi e scrittori: Georges Simenon, Jean Genet, Jacques Prévert, Greta Garbo, Elizabeth Taylor, Gregory Peck, the Bogarts, Ava Gardner, John Huston, Irving Shaw, Charlie Chaplin, Truman Capote and Gary Cooper. Nel frattempo, continua a posare per le riviste di moda con abiti di Christian Dior, Madame Grès, Balenciaga, Balmain. Nel 1955 raggiunge l'apice della carriera e proprio allora decide di allontanarsi dalla scena della moda.
Nonostante il suo ritiro, Bettina continua a lavorare in quel magico universo che tanto le ha dato. Nel 1963 è “ambasciatrice di charme” della rivista Elle: viene fotografata con “gli abiti più belli di Parigi” in Africa, dalla Valle dei Templi, al deserto del Sinai, alle falde del Kilimangiaro.
Nel 1967 torna a sfilare per la collezione di Coco Chanel a lei ispirata. In seguito è direttrice couture per Emanuel Ungaro e responsabile relazioni pubbliche per Valentino. Nel 2010 è nominata Chevalier des Artres et des Lettres dall'allora ministro francese Frédéric Mitterrand.
Bettina ama la moda, la segue e la precede. La sua figura e personalità è ancora oggi presente e influente fra gli stilisti e i fotografi contemporanei: Azzedine Alaia, Yohji Yamomoto, Pierre et Gilles, Mario Testino.
A lei la Galleria Carla Sozzani dedica una speciale mostra, che ne ripercorre lo stile e la carriera. Esposte oltre cento immagini realizzate dalle firme più autorevoli della fotografia di quegli anni: Erwin Blumenfeld, Henri Cartier-Bresson, Jean-Philippe Charbonnier, Jean Chevalier, Henry Clarke, Robert Doisneau, Martin Dutkovitch, Nat Farbman, Milton Green, Gordon Parks, Irving Penn, Willy Rizzo, Emile Savitry, Maurice Zalewski.
A corollario, il catalogo Bettina, edito da Carla Sozzani Editore: un viaggio per immagini nel magico mondo di una delle figure più emblematiche della storia del costume mondiale.

Bettina
Fino al 2 novembre 2014
Galleria Carla Sozzani, Corso Como 10, Milano
Tutti i giorni, ore 10.30-19.30; mercoledì e giovedì, ore 10.30-21.00

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