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Channel: La Vie C'est Chic
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ABOUT_Le calze di seta

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Correva l’anno 1939 e la storica accoppiata Danzi e Bracchi interpretava la canzone dal celeberrimo ritornello “Saran belli gli occhi neri, saran belli gli occhi blu, la le gambe, ma le gambe…a me piacciono di più!”. Protagoniste loro - le gambe -, osannate e idolatrate nella loro femminile sensualità, enfatizzata da inguainanti calze di seta che ne mettevano in risalto la seducente conformazione: caviglie sottili, polpacci affusolati e, al contempo, torniti, con la cucitura a sottolinearne la perfezione e a suscitare l’immaginario maschile. Un accessorio per la donna che diviene immancabile, tanto da sposarsi alle più disparate occasioni: calze di seta artificiale per “tuttuso”, di seta pura per la sera e gli appuntamenti mondani, declinate soprattutto nelle nuances nudo, cipria, biondo, bronzo, fumo e, dulcis in fundo, nero. Quello stesso nero che, decenni precedenti – nel 1893 - aveva contribuito a rendere celebri le gambe di Jane Avril immortalate da Henri Toulouse-Lautrec, così come quelle delle étoiles dei tabarins parigini, alle quali spettava l’onore di chiudere gli spettacoli a passo di cancan. Passa il tempo, ma non cambia il loro potere seduttivo: mezzo secolo più tardi, sempre loro concorrono a eleggere a simbolo di seduzione le gambe di Marlene Dietrich ne L’Angelo Azzurro. Non da meno, sebbene più spesse e coprenti nella versione in cotone, sono le calze indossate dalla procace e ultrasexy mondina Silvana Mangano in Riso Amaro, e di Laura Antonelli in Malizia;mentre di seta sono quelle della provocante Sophia Loren, protagonista di un memorabile spogliarello davanti a uno straordinario Marcello Mastroianni in un episodio di Ieri, oggi, domani di De Sica: una scena indimenticabile della storia cinematografica, tanto da essere ripresa trent’anni più tardi, con i medesimi attori, nel film Prêt-à-porter di Robert Altman. Forse meno esplicite, ma non per questo meno famose, le calze bianche di Anne Bancroft ne Il laureato: perché, nel tempo, le calze sono passate per diverse tinte, senza però perdere di fascino e intrigo. Il bianco, in particolare, vanta una prestigiosa estimatrice del calibro di Giuseppina Beauharnais, la quale ne possedeva ben 148 paia, alle quali alternava tonalità come il rosso o l’azzurro. Di color gridellino (fra il nero e il viola), invece, quelle dell’eroina dannunziana de L’Innocente. Cinema e letteratura a parte, le calze di seta vantano un loro trascorso anche nel guardaroba maschile, annoverando un estimatore del calibro di Enrico VIII che, insieme ai suoi gentiluomini, le indossava – azzurre o cremisi – ricamate in oro nella parte alta e con pietre in quella inferiore.
Tornando al côté femminile, tradizione vuole che tutto ciò che è nascosto alla vista stimoli e intrighi molto di più di quanto è costantemente sotto gli occhi. E così anche alle gambe è toccata questa sorte. Nel 1913 si cominciano a scoprire le caviglie; poco dopo, il trottuer (progenitore del tailleur) fa rialzare le gonne: et voilà!le gambe in bellavista, pronte a scatenarsi, volteggiare e scattare a ritmo di charleston, shimmy, one step, piuttosto che a muoversi sinuose con languidi tango. Sono gli anni in cui incomparabili abiti, ricamati e cortissimi, dalla meravigliosa foggia firmata Poiret, richiedono gambe e calze perfette, caricandosi di un’impareggiabile impronta sensuale. Le calze diventano così sempre più importanti per definire una mise e, al tempo stesso, valorizzare la donna che le indossa nella sua femminilità più autentica. La scelta non deve essere lasciata al caso, ma ponderata in considerazione dell’abito che si va a indossare. Un’importanza tale da indurre un industriale del settore, Pilade Franceschi, a istituire a Milano, in via Manzoni, il Museo Storico della Calza.Nel frattempo, complice il crescente culto estetico dedicato, si rinforzano le parti più soggette a usura (punta, tallone, talvolta anche pianta) e, grazie alla ricerca, la seta artificiale diviene meno lucida. Durante il secondo conflitto mondiale, vista la ristrettezza delle materie prime, le calze di pura seta diventano sempre più rare. Inoltre, data la delicatezza di questo indumento e la facilità con cui si smaglia, ecco svilupparsi la figura della ricamatrice. Le calze di seta assumono così il carattere di un regalo prezioso e ambito, portando le ragazze dell’epoca a guardare con invidia chi le indossa. Finita la guerra, è la rinascita di gambe e calze: nel 1946, l’attrice hollywoodiana Linda Darnell si fa fotografare mentre infila le gambe nelle prime “calze di vetro”, fatte su misura per lei. Betty Grable, invece, sgambetta a tutto spiano e Rita Hayworth diventa un emblema di seduzione ancheggiando e togliendosi i celeberrimi lunghi guanti, lasciando intravedere le gambe attraverso alti spacchi nella gonna. Nonostante questa rinascita, le calze di seta restano un indumento prezioso: 800 lire le 60 aghi, 600 le 54 aghi, considerando che gli stipendi medi sono poche migliaia di lire. Le pubblicità cominciano a dispensare consigli, come, per esempio, il fatto che la calza con la cucitura dia più slancio alla gamba, o a suggerire i colori in considerazione della tavolozza degli abiti. Nel dopoguerra fanno la loro apparizione le calze di nylon, che non possiedono però la carica erotica di quelle in seta. Accanto alle classiche in tinta unita, compaiono quelle a rete, di pizzo, decorate, stampate; calze indemagliabili e autoreggenti; con fili d’oro o d’argento per la sera. Il nylon e le altre fibre artificiali portano a un lento e graduale tramonto delle calze di seta. Tuttavia, il loro potere seduttivo rimane ineguagliabile. Perché come le aveva definite Diana Vreeland, esse rappresentano “il vestito più sensuale per una donna”. 

PEOPLE_Eugenio Marinella: la storia di uno stile

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Correva l’anno 1914 e alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, Eugenio Marinella, con ardore e tenacia, decide di dare avvio a quella che sarebbe divenuta una storia di successo dal sapore tutto napoletano. Una storia che esporterà la tradizione manifatturiera, l’abilità manuale e il culto dello stile oltreoceano, sdoganando il made in Italy come caratteristica principe per prodotti di pregio. Animato da una forte dose d’intraprendenza e convinto che fosse giunto il tempo di vestire l’uomo che conta, Eugenio apre una bottega in Piazza Vittoria sull’elegante Riviera di Chiaia di Napoli, allora come oggi, uno dei più bei lungomare d’Italia. Un piccolo spazio, di soli 20 metri quadrati, situato però in una posizione strategica: davanti, infatti, vi passeggia tutta l’alta società napoletana, da sempre incline a vivere e interpretare l’eleganza nel suo significato più autentico. Complice la lungimiranza e la curiosità di Eugenio Marinella, sempre più intento a compiere viaggi internazionali in una mecca dello stile sartoriale maschile come Londra, in men che non si dica il negozio diviene un piccolo scrigno di preziosi tesori di raffinatezza, quintessenza di gusto e maestria. Per dirla in breve: un piccolo angolo di Inghilterra a Napoli. Marinella è il solo a proporre nella città partenopea lo stile inglese, declinandolo in una vasta gamma di prodotti esclusivi provenienti direttamente dalla capitale d’oltremanica. A corollario, un ambiente cortese, disponibile e ospitale: un salotto più che un negozio, che mette al centro dell’attenzione la persona e le relazioni umane.
Contrariamente a quanto si può pensare, agli albori della sua attività, Eugenio focalizza l’attenzione sulla camicia, vera regina del guardaroba maschile. Spinto dalla ricerca dell’eccellenza allo stato puro, convince alcuni artigiani camiciai di livello a trasferirsi da Parigi per indottrinare i suoi operai circa l’arte del taglio. All’epoca, le cravatte sono realizzate esclusivamente in sette pieghe: il quadrato viene piegato sette volte verso l’interno in modo da conferire una consistenza incomparabile. Soltanto più tardi farà la sua comparsa la cravatta attuale con la struttura interna.
Il negozio, sorto in prossimità di uno dei più importanti eventi storici, ha seguito l’evoluzione del tempo, percorrendone peripezie e vicende: le due guerre mondiali, il declino dell’antica nobiltà, l’avvento della nuova borghesia, la comparsa di prodotti americani che implicano rilevanti cambiamenti della moda. Sempre attento alle evoluzioni sociali e culturali, Eugenio non demorde, bensì decide d’imprimere una radicale rivoluzione alla sua attività: interrompere la produzione di camicie a favore della cravatta, che diviene così il prodotto per antonomasia della Maison Marinella.
Nei mitici anni ’80, il marchio è protagonista di un’espansione e di una celebrità impensabili: l’allora Presidente della Repubblica nonché amico di famiglia, Francesco Cossiga, diventa “ambasciatore” dello stile targato Marinella, adottando l’abitudine di portare in dono a capi di stato, in occasione di visite ufficiali, una scatola contenente cinque cravatte Marinella. Per il marchio comincia un’ascesa inesorabile che lo porta a conquistare il mondo intero.
Oggi come allora, la tradizione e l’eccellenza sono il leitmotiv della Maison, complice la passione con cui la terza generazione della famiglia, capitanata da Maurizio Marinella, dirige l’attività in un’ottica di contemplazione dell’eleganza e della qualità.
Nel tempo, si sono avvicendati tra i clienti volti noti e prestigiosi: Luchino Visconti ne ordinava moltissime, tutte con fondo blu o rosso, sfoderate come foulard che coordinava a coloratissimi fazzoletti da taschino di seta indiana; Aristotele Onassis ne comprava dodici per volta, rigorosamente nere in modo da scoraggiare gli interlocutori e non far mai trapelare di che umore fosse. Le cravatte Marinella sono state al collo degli uomini più eleganti e famosi: in bottega è custodito gelosamente il libro delle firme dove sono contenuti gli autografi di molte teste coronate e presidenti di stato, alti esponenti della politica e dell’imprenditoria, della cultura e dello spettacolo.
A testimoniare e autenticare il prestigio del marchio E. Marinella, i due illustri blasoni che lo affiancano sin dalle origini: quello dell’Ordine della Giarrettiera, quale fornitore della Casa Reale Inglese, e lo Stemma Borbonico. Nel corso di quasi un secolo di attività, molti sono stati i riconoscimenti ricevuti, volti a ufficializzarne il prestigio e l’eccellenza.
La produzione firmata E. Marinella ha saputo mantenere intatto il culto delle materie prime e della produzione, realizzando cravatte “napoletane veraci” ma allo stesso tempo ispirate a un “british style”. Un vero e proprio simbolo di eleganza. Un nodo d’autore.
La moda della cravatta è sicuramente cambiata, ma non lo sono le case delle pregiate sete inglesi che da tre generazioni forniscono la materia prima per simili capolavori dello stile. Twill e seta sono i tessuti più utilizzati, declinati in pois, tinte unite e piccole fantasie in innumerevoli varianti di colori e combinazioni per realizzare cravatte sempre diverse tra loro ma comunque emblema di gusto. Il segreto di una vera cravatta Marinella risiede nella fattura: prerogative irrinunciabili sono la particolare imbottitura e il rinforzo del nodo, soggetto, più delle altre parti, alla compressione e all’usura. La larghezza e l’imbottitura del nodo variano secondo i gusti, così come la larghezza e la lunghezza in base all’altezza della persona che la indossa, realizzando, in tal modo, un innovativo servizio su misura applicato alla cravatta. Le creazioni E. Marinella sono tagliate e cucite a mano, una ad una, dalle sarte nel laboratorio di Napoli; soltanto quattro esemplari uguali possono essere ricavati da un unico pezzo di seta pura di 100x130 cm, stampato in Gran Bretagna nelle fantasie a microdisegni divenuti la cifra stilistica della Maison. Quelle a cinque, sette e nove pieghe costituiscono varianti più preziose rispetto al modello classico: necessitano di una lavorazione più complessa, che richiede almeno tre ore di tempo e un impiego maggiore di tessuto, uno speciale twill di seta che viene ripiegato su se stesso ben cinque, sette o nove volte, dall’esterno verso il centro, conferendo una corposità per così dire naturale alla cravatta che in questo caso non richiede l’ “anima” d’imbottitura.

Dulcis in fundo, per un vero dandy man, il decalogo dello stile secondo Eugenio Marinella:
  1. come in tutte le cose, anche per la cravatta è una questione di misura. Quella giusta è compresa tra gli 8,5 e i 9,8 cm nel punto più largo;
  2. il nodo deve essere fatto senza stringere troppo, per evitare l’effetto “impiccato”. Disfarlo sempre la sera e appendere la cravatta ben tesa durante la notte;
  3. avere la stoffa giusta. E quindi, seta jacquard per le regimental, seta più leggera invece, tipo foulard, per gli stampati, fantasie per le cravatte dal tono elegante, lana a righe o fantasie scozzesi per l’abbigliamento invernale sportivo;
  4. una cravatta per ogni occasione. Al mattino preferirne una chiara e di fantasia, la sera optare per una più scura
  5. non farsi consigliare né tantomeno demandare ad alcuno la scelta della cravatta. L’unica regola a cui affidarsi è l’istinto;
  6. da evitare: i disegni molto grandi e vistosi, quelle con un unico disegno centrale ma anche quelle troppo smorte e anonime. Da ricordare che la cravatta rivela il carattere;
  7. da preferire: quelle in tinta unita in colori decisi, piccoli disegni (pois, losanghe, quadretti, rombi, piccole stampe cachemire), righe trasversali di due o tre colori al massimo;
  8. i colori: la cravatta deve staccarsi dall’abito e dalla camicia. Deve essere di colore più scuro della camicia e più intenso di quello della giacca. Pur essendo spesso l’unica nota colorata di un abbigliamento serioso, meglio non esagerare! Da evitare il verde pisello, il giallo canarino, il rosso fuoco e il rosa confetto. Più scuri, senza essere anonimi, i bordeaux, i rossi scuri, i blu, i verdi e i marroni;
  9. l’abbinamento con la camicia è un campo minato in cui solo il buongusto può guidare. Da evitare, in ogni caso, la sovrapposizione di una cravatta dal disegno fitto su una camicia a quadretti o l’abbinamento “tutto righe” di una cravatta regimental, camicia rigata e giacca in tessuto operato;
  10. mai il coordinato cravatta + fazzoletto da taschino. È un’inutile quanto anacronistica affettazione. Evitare sempre di avere un aspetto d’insieme troppo curato e optare per un’eleganza decontractée.  

LEISURE_Altaroma: l'intelligenza si fa artigianale

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Dal 26 al 29 gennaio si è tenuta l’edizione invernale della fashion week capitolina. Haute couture e neocuture, new talents e grandi firme, preziosità sartoriali e contaminazioni d’avanguardia: questo il duplice binario sul quale si è articolata la versione invernale di Altaroma appena conclusasi, quintessenza del meglio del meglio in ambito moda e design, rigorosamente made in Italy. Giunta al numero 21, la quattro giorni di tendenze ha sfiammato numerose proposte e iniziative, volte a promuovere e valorizzare la qualità, la creatività e l’incomparabilità dell’inventiva e della produzione italiana. Un evento che intende sempre di più porsi come speciale occasione nell’ambito della quale testimoniare lo stile, la bellezza, la ricercatezza e l’intelligenza creativa che tanto contraddistinguono il Belpaese a livello mondiale. A fare da fil rouge per quest’edizione l’iconicità del made in Italy, celebrata con grandi classici e simboli della sartorialità.Una sartorialità che ha trovato la sua ragion d’essere nell’innesco di genialità e alto artigianato, chiave di volta per distinguersi dai modaioli appuntamenti di Milano, Londra e Parigi.
Largo spazio, in particolare, alla contaminazione tra le arti, attraverso momenti speciali dedicati, come, per esempio, l’omaggio rivolto a una signora della moda – Elsa Schiaparelli– per mano di una signora del teatro – Lella Costa: Elsa Schockingè il monologo tratto dall’autobiografia della stilista, interpretato egregiamente dall’artista. Couturiere rivoluzionaria, Schiaparelli è stata l’anti-Chanel, sofisticata e visionaria al punto giusto per non passare inosservata sulla scena del costume d’allora, desiderosa di avere punti di riferimento in fatto di stile e tendenze. Nel monologo per Altaroma,Elsa-Lella si racconta, evocando sul filo dei ricordi la rivoluzione di una moda che scopre il corpo, compagna di un’analoga metamorfosi messa in atto nel campo dell’arte dalle Avanguardie storiche.
Sintonizzate sulla medesima lunghezza d’onda, le presentazioni che simpaticamente hanno strizzato l’occhio all’universo artistico, primo su tutti, l’evento dedicato al loden, storico capospalla, nato come soprabito sportivo per la caccia: LodenTalha avviato un’operazione di recupero e rilancio, che passa attraverso nuovi colori, e porta a una collezione inedita maschile e femminile, presentata con tanto d’installazione realizzata ad hoc. Nello spazio austero del Complesso di Santo Spirito in Sassia, invece, il brand di Andrea Provvidenza ha proposto una videoinstallazione firmata da Emanuele Foti: un loden bianco diventa una tela attraversata da immagini proiettate.
E sempre in tema di icone, i riflettori sono stati puntati su un oggetto simbolo dell’haute couture: l’abito per il red carpet, reinterpretato, per l’occasione, dai talenti di Limited / Unlimited. 36 brand italiani hanno scelto i loro capi più preziosi per una sorta di passerella virtuale. Pezzi unici, come opere d’arte, con cui raccontare l’aspetto più spettacolare della moda.
Non solo fashion, dunque. Da sempre, infatti, Altaroma ha fatto della contaminazione tra i diversi linguaggi artistici uno dei suoi focus, rinnovando, di anno in anno, la sua vocazione per l’arte contemporanea e la sua sensibilità eclettica.
Una devozione che ha avuto il suo cuore con A.I., ovvero Artisanal Intelligence, progetto pensato per coltivare un sapiente mix tra arte, artigianato e moda. Rigorosamente nel segno dell’eccellenza italiana, A.I. si è caratterizzato quale laboratorio per la creatività emergente: un blog ma anche un programma di eventi, studiati per insolite location. Ecco come si è sviluppato A.I. Gallery 2013, un percorso tra alcune gallerie d’arte romane, che hanno ospitato le creazioni di talentuosi artigiani della moda. Un parallelismo che dà manforte a quell’idea di unicità e di esclusività, che passa attraverso la cultura dell’hand made ed è in grado di orientare le scelte e le suggestioni, stimolando l’individuazione di nuovi marchi e di giovani designer. Nel quartiere Parione si sono concentrate svariate attività, con l’intento di convogliare entro uno specifico perimetro urbano una fascia di pubblico ampia, trasversale e attenta. Esperimenti alchemici, invece, negli spazi del Ponte, con gli abiti di Conny Groenewegen, designer olandese che spicca per i suoi giochi con la maglieria e l’intreccio dei materiali: l’abito si fa così scultura duttile, impalpabile ma resistente, meravigliando con l’incontro inatteso tra leggerezza e rigidità, solidità e fluidità. In contemporanea, nell’ambito della mostra “Questo soltanto e nulla più”, la galleria ha ospitato una performance di Myriam Laplante. Pietra filosofale a parte, dall’alchimia alla matematica il passo è breve, tanto che da Emmeotto è andato in scena il Teorema di Simone Rainer: borse come accessori geometrici, che nella forma perfetta del triangolo racchiudono il senso eterno e universale di un’icona di moda che si rispetti.
A esplorare il mondo dei cappelli, accessorio antico reinventato in mille declinazioni, ci ha pensato invece Altalen, nuovo spazio milanese di sperimentazione, con un’attenzione particolare rivolta all’artigianato di qualità, al gusto per il retrò e agli innesti fantastici tra classico e contemporaneo, arcaico e futurista. Ci sono poi stati i gioielli tridimensionali di Stefania Lucchetta, esposti da Marie-Laure Fleisch: micro-strutture architettoniche che si adattano al corpo, tramutando rigorosi calcoli matematici in assemblaggi poetici, tutti da indossare.
Borse e ancora borse da The Gallery Apart, con le creazioni-bijoux di Badura, pensate per una donna-icona immaginaria: Sophie. Colei che in sé racchiude quell’ineffabile, contraddittorio senso di necessità, associato a un’intrigante idea di “lusso” sempre più inteso come modus vivendi se rapportato alla moderna accezione di appagamento del desiderio, tensione verso la perfezione e resistenza alla caducità del banale.
Haans Nicholas Mott, con il suo fashion show “These are eyes in the darkness”, invece, è stato ospite di Monitor. Un appuntamento con la genialità incontenibile di un artista/artigiano, che dipinge storie per immagini dedicate al dandy contemporaneo, chic, alternativo, estroso, infaticabile flâneur del proprio tempo. Infine, da Z2O di Sara Zanin Paolo di Landro ha allestito un laboratorio in progress insieme a Miltos Manetas. Spazi di condivisione eccentrica, nei quali si sono inventati speciali tragitti per esploratori del presente, in cerca di identità e di direzioni, come di abiti, forme, segni, stili, outfit.
 A chiudere il percorso, lo special event allo Spazio Innocenzo X, dove l’artista Sissi ha tracciato una bozza autobiografica utilizzando un catalogo di abiti indossati, manipolati, trasformati: due proiezioni, “Archivio Addosso” e “Archivio Onme“, hanno attinto a un repertorio personale che va dal 1998 al 2010.
E per i più esigenti, sempre nell’ambito di Artisanal Intelligence, è stata pensata A.I. Fairfuture, un’incursione nel mondo della tecnologia. Grazie all’applicazione della piattaforma Arduino, dieci prodotti di alto artigianato sono stati presentati in modo contemporaneo, in un geniale incontro di tradizione e innovazione. La ricetta vincente? Essere on-line, ma restituire qualità tattile e dettagli dei prodotti, stabilendo confronti utili tra marchi diversi e promuovendone la vendita. Fotografia rotante, angolazioni molteplici, altissima definizione, interattività, gestione di luci e ombre: un sistema hi-tech efficace, che ha sfruttato il potere della rete e la potenza comunicativa delle immagini digitali. L’ideale, in un momento in cui l’e-commerce – con i suoi costi modici e la sua diffusione capillare 2.0 – rappresenta una concreta possibilità di sviluppo per chi vive di creatività e mercato.
Un percorso innovativo con cui valorizzare l’eccellenza e il saper fare italiano, senza perdere di vista il radicamento con la tradizione e puntare con sempre maggiore consapevolezza al futuro.

LEISURE_L'archivio Condé Nast in mostra a Milano

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“Dobbiamo fare di Vogue un Louvre”. Queste le parole che Edward Steichen rivolse negli anni ’20 a Edna Woodman Chase, la prima caporedattrice di Vogue America. E che, oggi come allora, riecheggiano la rivoluzione impressa da Condé Nast e dal suo gruppo di lavoro non solo alla moda ma alla fotografia generalmente intesa, da quando, nel 1909, acquista la prestigiosa testata Vogue.
Un’impronta nuova, figlia di una lungimirante visione e interpretazione dello stile, devota a una resa illustrata volta a spingersi oltre il semplice racconto per immagini, declinato in delicate istantanee ottocentesche. D’ora in poi, gli scatti parlano da sé: esprimono caratteri, testimoniano un’epoca, rappresentano istanze socio-culturali. Il tutto per opera di veri geni del mestiere, che, complice l’occhio indagatore dell’obiettivo, firmano alcune delle scene più emblematiche, destinate a lasciare il segno. Edward Steichen è stato uno dei primi grandi autori a scattare per Vogue, accettando una sì intrigante sfida e non curandosi troppo di chi lo accusava di essersi svenduto per la moda. Da quei primi intrepidi passi, sono cambiate molte cose fino a far diventare la fotografia di moda una disciplina che va ben oltre la semplice frivolezza e che non deve dimostrare più il suo valore: grazie al talento e alla tecnica dei suoi rappresentanti, oggigiorno è un linguaggio artistico a tutti gli effetti, caratterizzato per la formidabile forza ed influenza visiva.
Tutto questo e molto altro ancora, è adesso protagonista di una mostra organizzata dalla Fondazione Forma, a cura di Nathalie Herschdorfer.
Un percorso espositivo che raccoglie una straordinaria selezione d’immagini provenienti dagli archivi Condé Nast di New York, Parigi, Londra e Milano: un’occasione unica per raccontare, attraverso opere preziose e rare, la storia della fotografia di moda, cogliendone le evoluzioni dalle sue origini fino ai giorni d’oggi. Si evince, così, il suo carattere per così dire teatrale, dove per costruire l’immagine, insieme al fotografo, giocano ruoli importanti i redattori, le modelle, i truccatori, gli stylist…un esercito di figure professionali relativamente nuove, venutesi a creare proprio in concomitanza con lo sviluppo e l’affermarsi della fotografia di moda. In tutti questi anni, essa ha rappresentato il terreno di sperimentazione per antonomasia, trovando la sua piena realizzazione sulla carta stampata, complice l’indissolubile legame tra fotografi e redazione, che ha dato vita a collaborazioni creative e, al tempo stesso, provocatorie, in grado d’interpretare e, soprattutto, anticipare lo stile. Da Cecil Beaton a Man Ray a Guy Bourdin, passando per Helmut Newton, Mario Testino, Peter Lindbergh e molti altri: la grande inventiva della fotografia ha dato vita nelle pagine delle riviste Condé Nast ai sogni e alle visioni della moda, invitando stuoli di lettrici a lasciarsi andare ogni volta a un viaggio incantato, in bilico tra luoghi lontani e tempi andati o mai arrivati. Un’evasione onirica nel meraviglioso mondo della moda, quintessenza di pura bellezza e magica evocazione.

Fotografie di:
James Abbé, Miles Aldridge, Diane Arbus, Antony Armstrong-Jones (Lord Snowdon), Art Kane, David Bailey, Serge Balkin, André Barré, Michael Baumgarten, Cecil Beaton, Erwin Blumenfeld, Guy Bourdin, Henry Clarke, Clifford Coffin, Corinne Day, Baron Adolf De Meyer, Patrick Demarchelier, André Durst, Arthur Elgort, Hans Feurer, Toni Frissell, Arnold Genthe, Milton Greene, René Habermacher, Ben Hassett, Horst P. Horst, George Hoyningen-Huené, Mikael Jansson, Constantin Joffé, Bill King, William Klein, Barry Lategan, Peter Lindbergh, George Platt Lynes, Man Ray, Herbert Matter, Craig McDean, Frances McLaughlin-Gill, Raymond Meier, Gjon Mili, Lee Miller, Sarah Moon, Ugo Mulas, Nickolas Muray, Helmut Newton, Norman Parkinson, Irving Penn, Denis Piel, John Rawlings, Terry Richardson, Herb Ritts, Paolo Roversi, Franco Rubartelli, Richard Rutledge, Satoshi Saïkusa, Daniel Sannwald, Jerry Schatzberg, David Seidner, Charles Sheeler, Edward Steichen, Bert Stern, Sølve Sundsbø, Mario Testino, Michael Thompson, Eric Traoré, Deborah Turbeville, Inez Van Lamsweerde/Vinoodh Matadin, Willy Vanderperre, Tony Viramontes, Chris von Wangenheim, Tim Walker, Albert Watson, Ben Watts, Bruce Weber.

La mostra è accompagnata da un libro-catalogo edito da Contrasto con la prefazione di Todd Brandow, saggi di Nathalie Herschdorfer, Sylvie Lécailler, Olivier Saillard e un’intervista esclusiva con Franca Sozzani direttore di Vogue Italia.
La mostra è un progetto realizzato dalla (FEP), Foundation for the Exhibition of Photography, Minneapolis/Paris/Lausanne, in collaborazione con Forma.

Fashion – Un secolo di straordinarie fotografie di moda dagli archivi Condé Nast
Fondazione Forma per la Fotografia, piazza Tito Lucrezio Caro 1, Milano
Dal 17 gennaio al 7 aprile 2013
Tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00 – Giovedì e Venerdì fino alle 22.00 – chiuso il Lunedì
www.formafoto.it - tel. 02 58118067 

LEISURE_Maschere e costumi in mostra

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Nella magica cornice veneziana, tra atmosfere dal sapore goldoniano, auree di mistero che ne percorrono ogni calle e una devozione quasi sacra per la tradizione del Carnevale, è stata inaugurata a Ca’ Giustinian, sede storica della Biennale, la mostra “20 anni di Maschere e Costumi”.
L’esposizione, composta dalla collezione dei bozzetti teatrali dell’ASAC – Archivio Storico delle Arti Contemporanee, è organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta, in occasione del 4. Carnevale Internazionale dei Ragazzi, Il Leon Musico.
Si possono così ammirare 350 disegni che fanno parte ella sezione Bozzetti di scena e costumi:opere accumulate in decenni di produzioni che la Biennale ha voluto valorizzare. 
I criteri in base ai quali sono stati scelti sono naturalmente legati al carattere del Carnevale e privilegiano la stravaganza, l’estro, l’assurdo, il paradosso e il surreale, senza però disegnare aspetti per così dire più dinamici come il colore e il ritmo. Diverse le tematiche attorno alle quali si articola la mostra: “Maschere e nuove maschere”, “Musici”, “Mestieri”,“Animali“, “Belle époque”, "Old America"“Militari”, “Ritratti dell’assurdo”, “Sexy ladies”, “Giochi e favole per bambini”.
L’allestimento espositivo è alquanto particolare, prevedendo l’esposizione di bozzetti riprodotti in dimensione “reale”, tableaux che raccolgono diverse interpretazioni dello stesso soggetto, riproduzioni “macro” anche sagomate e/o sospese al soffitto, oggetti "volanti". Gli autori sono tra i più noti artisti della modernità e della contemporaneità: Felice Casorati, Renato Guttuso, Emanuele Luzzati, Mino Maccari, Giacomo Calò Carducci, Piero Copertini, Gianna Lanza, Jacques Lecoq, Enrico Capuzzo, Jean Pierre Ponnelle, Theophanes Matsoukis, Ed Wittstein, Walter Siegfrid, Dorino Cioffi, Giancarlo Tantille, Therese Van Treek, Dafne Ciarocchi.
Un allestimento che diventa sensoriale grazie alle interazioni audio e video proposte: sequenze di immagini (scene e personaggi) riprodotte in dissolvenza incrociata, associate a opere di cui è possibile ascoltare alcuni estratti musicali attraverso cuffie appositamente predisposte.
 Per la precisione, gli spettacoli selezionati per l’ascolto sono: “Allez-hop!” (Berio-Lecoq), “Treemonisha” (Scott Joplin-Copertini), “Idomeneo” (Mozart-Casorati), “Il Mandarino Meraviglioso” (Bartók-Ponnelle), “Lady Machbeth of Minsk” (Shostakovic-Guttuso).
D’altra parte, proprio la maschera e i costumi in maschera sono i simboli del Carnevale. In effetti, fin dalle prime forme di questa liturgia della ri-creazione(celebrazione del passaggio dal caos all’ordine della cosmogonia), così come le conosciamo nelle feste in onore di Dioniso o nei Saturnali romani, o nelle rappresentazioni dei miti antichi indoeuropei, questi simboli sono stati usati ancheper altre forme di rappresentazione come, per esempio, il teatro di strada oppure “colto”, generando veri e propri personaggi e luoghi della finzionea cui venivano associati ruoli e caratteristiche ben precisi.
Il teatro e il teatro musicale, pertanto, rappresentano una fonte inesauribile d’invenzione e creazione di un immaginario fantastico che si esprime, appunto, in scene, costumi e maschere (in senso lato) che necessariamente popolano il “surreale”, anche nelle interpretazioni che si reputano realistiche.

ABOUT_L'arte di fare il nodo

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Il nodo, punto focale della cravatta, è frutto di una creazione personale, di un gesto quotidiano che, seppur compiuto attenendosi ad un preciso schema, origina ogni volta una cravatta unica ma identica a se stessa nella sua essenza di accessorio per antonomasia nell’abbigliamento maschile. 

Attraverso il modo di annodare la cravatta l'uomo manifesta, seppur involontariamente, la sua personalità. Ma non solo…ogni nodo, infatti, ha il proprio nome e la propria storia. Durante il secolo scorso, diviene talmente importante da stampare piccoli trattati, nei quali si disserta dei vari modi di annodare la cravatta. La storia narra che Il gesto di annodare personalmente la cravatta è sempre stato tenuto in gran considerazione fin dagli albori dell’approdo della cravatta nelle abitudini vestimentarie di un gentleman che si rispetti. Luigi XIV, per esempio, amava annodare di persona la propria cravatta, scegliendola tra quelle che ogni mattina il cravatier gli porgeva su un vassoio. 
Anche Lord Brummel, il gentiluomo inglese al quale va attribuito il nuovo modo di concepire l'eleganza maschile, ogni mattina si dedicava con estrema perizia ad annodare personalmente la cravatta e se il nodo non gli riusciva alla perfezione al primo tentativo, era solito buttar via la cravatta utilizzata e prenderne un'altra, fino a quando il nodo non gli sembrava fatto a regola d’arte.

Il nodo più diffuso oggigiorno è comparso nella seconda metà dell'800 ed ha cominciato ad aver successo quando il colletto rigido fu sostituito da quello morbido. 
Probabilmente, è stato utilizzato dapprima negli ambienti sportivi, quasi sicuramente a Londra dai frequentatori del "four in hand club" che si divertivano a lanciare nuove mode. Forse proprio lì è nata l'idea di annodare le cravatte come le briglie del tiro a quattro, da cui il nome di nodo "four in hand" (tiro a quattro). 
In Francia, questo stesso tipo di nodo, ha preso il nome di régate, poiché era usato soprattutto da coloro che partecipavano alle gare veliche. Un appellativo a cui ben si presta, dal momento che, altro non è, se non una variante di un nodo molto comune in mare, il parlato, usato spesso per gli ormeggi provvisori. 
L'origine sportiva del nodo, inoltre, sarebbe più che verosimile dato che nel secolo scorso, anche quando si praticava sport, bisognava indossare la cravatta: pertanto, soprattutto in questo ambiente, si era alla ricerca di nuovi modi di annodare, secondo soluzioni il più possibile pratiche e durature.
Con il passare degli anni e delle mode, i nodi si sono moltiplicati, diventando, alle volte, vere e proprie pratiche di disinvoltura manuale, da realizzarsi con un’abile maestria dei gesti. In particolare, 
ogni nodo è frutto di una piccola invenzione compiuta da personaggi più o meno famosi, in una tale varietà di nodi esistenti. Dire quale sia migliore di un altro è un’ardua decisione, piuttosto si può affermare con certezza che ve ne sono alcuni che hanno più personalità di altri.

Nodo americano
"L'Americano" è un nodo consistente, adatto alle cravatte larghe ed imbottite. Gli americani avevano accolto con favore l'avvento della cravatta larga ed il primo personaggio celebre che l'aveva adottata è stato Nixon, imitato poi da Ford e da Carter. Mentre negli Stati Uniti "l'Americano" viene eseguito quasi esclusivamente su cravatte larghe, in Europa lo si adopera con cravatte di ogni tipo. Risalta maggiormente se si portano camicie “botton down”, cioè dal colletto fermato da due bottoncini.

Nodo bluff
Il "Bluff" è forse il più comune degli Ascot montati. È di dimensioni maggiori rispetto all'Ascot regolare e sarebbe quindi più complicato da preparare a mano. Apparentemente manca il nodo che in realtà è nascosto dalle gambe mantenute lievemente sollevate da una cucitura ed incrociate.
La cravatta montata è una cravatta artificiale, posticcia, un puro espediente che da una vita ad una cravatta già annodata, il cui nodo è cucito.

Nodo classico
Le varianti dei nodi di papillon sono di competenza di pochi specialisti. Ad un occhio esperto fiocchi e nastri non sembrano cambiare di molto. Ciò che cambia è la natura stessa del papillon che viene annodato ogni volta in modo diverso: questo crea sottili differenze, quasi impercettibili.
Il "Classico" è un nodo particolarmente composto, adatto ai papillon già pronti da indossare, dato che una volta preparato è piuttosto difficile da sciogliere. Per questo viene utilizzato dai cravattai soprattutto per i papillon da vendere già annodati.

Nodo diagonale
Questo nodo è caratterizzato da un taglio diagonale che crea una linea di sbieco sul nodo. Può essere preparato quasi esclusivamente con cravatta di cashmere. Nel "Diagonale" il nodo si scopre e lascia in vista la piega. Essa crea un gioco di chiaro-scuro al centro del nodo stesso. Per valorizzare questo nodo è preferibile usare una cravatta chiara, in tinta unita a piccoli disegni.

Nodo inglese
"L'inglese" è il nodo classico per eccellenza. Fino agli anni Sessanta era questo il nodo portato dalla maggior parte della popolazione inglese. Usato inizialmente dalla classe dominante, è stato in un secondo momento imitato dal resto della popolazione. Lo stesso Edoardo VIII, prima di passare al "Windsor", portava solitamente questo tipo di nodo.
Per realizzarlo occorre una cravatta che non superi i 6/7 cm di larghezza ed il nodo non deve essere più alto di 3 cm. È un nodo neutro ed equilibrato: né troppo largo, né troppo stretto

Nodo puff
È questo un Ascot montato che ha però una forma molto simile ad una cravatta annodata. Esso è un normale Ascot che viene cucito al nodo.
Le gambe sono lievemente bombate all'uscita dal nodo. Talvolta per la bombatura si ricorre anche all'uso di un'imbottitura. Generalmente il Puff Ascott si completa con l'applicazione di una spilla.

Nodo scappino
"L'Half Windsor" è un nodo molto simile al "Windsor" ma si differenzia da esso per il fatto che nella preparazione è previsto un passaggio in meno. Ciò lo rende meno conico del Windsor.
È un nodo non troppo grande che può essere adoperato sia per dare più corposità al nodo di una cravatta troppo stretta, sia per appiattire il nodo di una cravatta particolarmente larga. Non è adatto alle cravatte di maglia.

Nodo semplicissimo
Come dice il nome stesso è un nodo ancora più semplice da preparare di quello normale. Risulta più piatto e sottile e rispetto alla sequenza normale risparmia un passaggio.
Per ottenere l'effetto del "Semplicissimo" il segreto sta nell'imprimere alla parte larga una torsione di 180° nella prima fase. Questo nodo ha un'ottima tenuta e benché sia molto semplice da preparare si scioglie con maggiore difficoltà rispetto al normale.

Nodo windsor
Di gran moda negli anni trenta, prende il nome dai duchi di Windsor in modo particolare da Edoardo VIII. Si tratta di un nodo simmetrico a struttura conica, adatto ai colli molto aperti, come quelli delle camicie italiane.

LEISURE_Nella galleria del bottone

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Spesso si sente dire che il dettaglio fa la differenza, attribuendo personalità e insostituibilità. Proprio in virtù di questa semplice considerazione, nel mondo della moda diviene un elemento per nulla trascurabile, in grado di contraddistinguere un capo o un accessorio, conferendogli quell’alone di eternità. Tanto che monsieur Christian Dior era solito asserire “Il dettaglio è importante quanto l’essenziale. Quando è infelice distrugge tutto l’insieme”. Ecco, pertanto, che il dettaglio nella storia della moda si è fatto sempre più strada, consapevole del proprio potenziale pratico e caratteriale.
In questo magico universo, ha assunto un’importanza indiscutibile il bottone: elemento funzionale ma, al tempo stesso, decoro estetico in grado di enfatizzare la cifra stilistica. Una duplice natura che l’ha proiettato in cima alla lista dei dettagli che non possono essere trascurati, bensì sono meritevoli di un’attenta e approfondita analisi che tenga presente l’ispirazione visionaria dello stilista e l’apparenza formale del capo/accessorio.
Un piccolo occhiello, che per Cristobal Balenciaga non doveva mai superare la dimensione dell’occhio femminile. Un dettaglio minuscolo, ma carico di significato e valore, che adesso viene celebrato di diritto con la mostra “Il bottone. Arte e moda”, visitabile ai Musei Mazzucchelli, a Ciliverghe di Mazzano (Bs), sino al 30 aprile 2013. Un’occasione per trasformare il bottone in un piccolo pezzo d’arte nonché in un mezzo per leggere la storia e i mutamenti della cultura attraverso l’evoluzione della moda. In tal modo, si crea tra il bottone e la moda un legame indissolubile, che contempla esigenze meramente funzionali (l’allacciatura di un capo) ad altre di carattere spiccatamente stilistico, creando una sorta di corrispondenza tra le sue forme e i suoi decori e il periodo storico in cui s’inserisce.
Per la prima volta, è esposta la collezione di bottoni di Franco Jacassi, che vanta oltre 7000 pezzi, a partire dal XVIII secolo fino ad arrivare agli anni ’90. La mostra ne ripercorre così la storia, ponendola in parallelo all’evoluzione della moda. In passato, infatti, vi erano alcuni marchi di riferimento ai quali si rifaceva il mondo di mercerie e sarte che riproduceva i pezzi di prestigiose Maison come Chanel, ponendo grande attenzione alla qualità. Con l’avvento del prêt-à-porter, vi è stata un’inversione di marcia volta a prediligere la quantità e a scardinare la liaison ispirazionale con le Maison d’alta moda: la produzione di bottoni, pertanto, percorre la propria strada, producendo collezioni che vengono vagliate di volta in volta dagli uffici stile.
Tra i pezzi esposti, pregiati bottoni antichi, pezzi unici di Eva Sabbatini, le storiche palline da golf di Hermès, le tartarughe di Valentino, i bottoni di Lanvin che riportano il marchio, quelli intrecciati con fili di seta colorata di Paul Poiret e le eccentriche creazioni di Elsa Schiaparelli.
La mostra, quindi, si pone come un tributo all’Italia e alla sua prestigiosa filiera produttiva nel settore moda.
Un bottone che assume sempre più versatilità, slegandosi dalla sua intrinseca natura funzionale, alla volta di un’esaltazione concertata dei suoi elementi estetici e di stile con i quali adattarsi alle più euforiche e svariate interpretazioni di moda. 

STYLE_Preview primavera/estate 2013

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Col qualche tempo d’anticipo è giunto comunque il momento di guardare alla stagione che verrà per capire in fatto di stile e tendenze cosa ha da proporre. Pronti quindi a immergersi in un mondo immaginifico, in bilico tra sogno e realtà, dove tutto assume un’allure particolare, mostrandosi nella sua essenza più profonda. Dicendo di sé e delle visionarie interpretazioni che l’hanno ispirato. Visioni che conducono inevitabilmente a un viaggio tra Oriente e Occidente, mixando culture e identità. Si indosserà, pertanto, un nuovo abito o una nuova personalità? Questo l’emblema della prossima stagione.
Decostruzioni geometriche e fascino del Levante diventano, quindi, i leitmotiv sui quali si sviluppa la primavera/estate 2013.
Si comincia da un classico intramontabile e, proprio per questo, immancabile: il bianco e nero. Un grafismo eclettico dagli effetti e dai rimandi optical. Da Balenciaga la gonna a taglio a sbalzo, ripresa dagli archivi della Maison, si ripropone in quest’elegante binomio cromatico, scolpendo la silhouette nelle sue forme essenziali.
Lanvin, invece, punta il cuore della sua collezione su uno smoking destrutturato, dove l’unica tracciabilità stilistica di questo capo nella sua versione tradizionale è rappresentato dal rever bianco a contrasto sul raso di seta nero.
Bando alle geometrie chez Chanel che propone una maglia dal motivo sailor in versione extra-large. Un over adorato anche da Maison Martin Margiela che fa degli abiti dai tagli netti a vivo il must grazie al quale esprimere una creatività intatta e sorprendente. Over, giocato con nuance pure e texture compatte, anche chez Marni, dove la gonna color rosa confetto si sposa con il top in eco-pelle petrolio. Nasce così, quasi per incanto, una nuova silhouette, razionale e pulita.
E se la geometria è uno dei capisaldi per la prossima stagione, ben vi stanno, allora, i tocchi di cubismo grafico proposti da Acne con i suoi quadrati, che molto rimandano alle opere di Mondrian, oppure l’abito a “uovo” giocato sull’alternanza simbiotica di luci e ombre, tra il rosa Elsa Schiaparelli e il bianco latte, proposto da Chanel, quasi fosse un tributo all’arte digitale, o, ancora, il soprabito di Fendi sul quale emergono quasi in 3D i cubi multicolor, creando un nuovo spazio visivo.
Lasciando l’Occidente alla volta dell’Oriente, Etro si ispira ai tagli del tradizionale kimono, tra fiori dipinti o ricamati, per dare vita a casacche da portare legate in vita e abbinate a cropped-pants.
Quintessenza d’eleganza, invece, la collezione di Giorgio Armami, che ancora una volta valida i canoni stilitici della sua estetica sempre più rivolta a una donna raffinata e di buon gusto: a troneggiare su tutto, un completo tre pezzi, composto da pantaloni ampi, top e giacca in lino grezzo, per un orientalismo divinamente daily wear.
Stile metropolitano, mixato a note grunge, per total look a check multicolor da Dries Van Noten e black&white per i pantaloni di 3.1 Philip Lim. A corollario di questo stile, dettagli metal come la borsa di Stella McCartney. Sulla stessa scia, anche se concepito con note di fondo decisamente diverse, l’abito da cocktail di Christian Dior: un mini dress monospalla di duchesse e organza metallica.
Per quanto concerne il colore cult della primavera/estate che verrà, sembra trionfare il giallo, in tutta la sua elettricità e brillantezza, sbaragliando anni di neon e nuance tropicali. Gucci lo propone con un trench, mentre M Missoni reinterpreta un classico abitino bon ton in piquet e san gallo di cotone. Modernismo, invece, nella rivisitazione di Louis Vuitton,che sceglie un damier (tema caro alla Maison) bianco e lime. 

PEOPLE_Bulgari: una storia tra prestigio e brillantezza

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Dici Bulgari e ti si apre un universo di preziosa magia, dai riflessi brillanti e dall’atmosfera unica e impalpabile, dove l’alta gioielleria si plasma ai diktat del gusto contemporaneo. Tradizione e innovazione, storia e futuro, custodia gelosa del passato e slancio verso un futuro avvincente: questi i punti di forza della Maison Bulgari, che, a livello internazionale, la pongono come il punto di riferimento nel suo settore.
Tutto ha inizio con Sotirio Bulgari, di origine epirota. Correva l’anno 1879: giunto in Italia, portando con sé le tradizioni orafe della Grecia classica, decide di aprire nel 1885 un negozio in via Sistina a Roma, proponendo al pubblico pezzi d’oreficeria antica e moderna. L’attività si sviluppa al punto che, vent’anno più tardi, l’azienda trova nuova sede in via Condotti. A partire dalla metà del ‘900, la produzione assume una fisionomia precisa e originale, frutto dell’impegno creativo e della lungimiranza imprenditoriale dei due figli di Sotirio, Costantino e Giorgioche, nei primi anni ’30, fanno il loro ingresso in azienda. Il primo, interessato soprattutto al collezionismo, comincia ad annoverare oggetti d’arte, icone, giade intagliate, approfondendo lo studio dell’arte orafa antica. Suo il volume Argentieri, Gemmari e Orafi, opera di riferimento per la conoscenza della tradizione orafa italiana. Il secondo, invece, si occupa della gestione commerciale della gioielleria che, nel frattempo, è divenuta il salotto preferito dalla nobiltà, dai ricchi turisti americani in viaggio a Roma e dal jet set cinematografico internazionale. Complice l’introduzione del taglio cabochon e l’uso delle pietre incastonate nell’oro giallo, Bulgari lancia un nuovo stile, caratterizzato per la grande libertà inventiva. Senza però dimenticare il senso della tradizione tout court, racchiuso nelle antiche monete greche e romane proposte come centro di collane e bracciali a maglie avvolte a tubo gas, oppure quale motivo di decoro per anelli, spille, orecchini, oggetti d’arredo in argento.
L’impeccabile realizzazione a mano, la finezza compositiva e l’inconfondibile design fanno di questi gioielli dei veri e propri oggetti cult. Negli anni ’60 entrano in azienda le figlie di Costantino – Anna e Marina – e i figli di Giorgio – Gianni, Paolo e Nicola -. Nel decennio successivo, la Maison decide di dare avvio all’affermazione a livello internazionale, aprendo sedi a New York, Parigi, Ginevra e Montecarlo. Gli anni ’80 e ’90, invece, sono stati caratterizzati dal battesimo degli orologi Parentesi, Bulgari-Bulgari, Quadrato, dal profumo e dalla nascita della prima linea di gioielli modulari, geometricamente stilizzati, battezzata Parentesi. Nel 1991 debutta la collezione Naturalia, che trae ispirazione dal mondo animale e vegetale.  È sempre degli anni ’90 la realizzazione degli accessori uomo e donna, pelletteria, foulard, cravatte, occhiali. Ne 1996, Bulgari intraprende la sperimentazione di nuovi materiali con la linea di gioielleria Chandra, in cui la porcellana è accostata all’oro. Nel 2001, lancia Lucea, una collezione innovativa dal punto di vista stilistico, caratterizzata da una fluida trama in oro e pietre, di cui è testimonial la modella Gisele Buendchen. Nel 2002 nasce Bulgari&Resorts, la joint venture tra Bulgari e Luxury Group, la divisione alberghi di lusso della Marriott International, che porta all’apertura di una serie di alberghi. È dell’autunno 2003, invece, il lancio della fragranza femminile Omnia, l’ottava creazione della linea di profumi per donna e per uomo firmata Bulgari.
Addentrandosi nell’ultimo decennio, bisogna evidenziare nel 2009 la presentazione di due raffinate e originali collezioni. Bulgari Newè caratterizzata da un cerchio d’oro con inciso il caratteristico doppio logo; i materiali utilizzati sono oro giallo e bianco 18 carati, da soli o combinati sia con onice e madreperla che con luminosi pavé di diamanti. B.zero 1, invece, predilige l’utilizzo di gemme di color, che danno un risultato fresco e femminile. Peridoti, topazi blu, granati, citrine e ametiste dal colore vivido e dalla particolare trasparenza, si combinano e si fondono con sottili catene ed elementi pendenti, che danno movimento e vita a ogni pezzo. Come se tutto ciò non bastasse, gli orologi icona della Maison si rinnovano con tre nuovi quadranti in madreperla bianca, rosa e marrone. Peculiarità inconfondibile: gli indici di diamante abbinati al cinturino che viene proposto in tre colori.
Bulgari: una storia di vita e un’epopea di stile prima ancora che una semplice attività volta al culto divinatorio del bello. Un bello che assume tratti nuovi e distintivi, frutto di quella devozione e di quella passione che, per oltre un secolo, hanno animato lo spirito e la ragione d’essere. 

LEISURE_Alfa Castaldi in mostra a Milano

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Fotografo curioso, completo e colto, Alfa Castaldi nella sua carriera professionale ha esplorato vari generi con grande passione e competenza. Arriva, però, alla fotografia attraverso un percorso formativo particolare, che vede nello studio della storia dell’arte e nella presenza di Roberto Longhi - colui al quale va riconosciuto il merito d’aver rivoluzionato la critica d’arte in Italia -, due capisaldi fondamentali per lo sviluppo della sua inconfondibile cifra stilistica.
Giovane brillante, di origini milanesi, è solito recarsi al Bar Giamaica di via Brera, ritrovo obbligato per coloro che diventeranno i migliori fotografi di un’epoca: da Ugo Mulas a Mario Dondero a Carlo Bavagnoli, passando per pittori, scrittori e giornalisti, è un crocevia di idee, interpretazioni, ispirazioni e visioni che daranno vita al rinnovamento della cultura milanese.
Alfa Castaldi, da subito, subisce il fascino della fotografia, per la quale decide addirittura di abbandonare gli studi d’arte tradizionali, destinando tempo, risorse ed energie a questa nuova espressione artistica, tutta da scoprire e apprezzare.
Si dedica dapprima ai reportages nel sud del l’Italia per poi volare verso Parigi, Londra e l’Algeria, e infine alla moda, declinando il suo stile in still life, ritratti e sperimentazioni.
Tutto questo – e molto altro ancora – in mostra dal 17 febbraio alla Galleria Carla Sozzani con un’esauriente retrospettiva che indaga gli aspetti meno noti e più intimi di Alfa Castaldi, complice l’allestimento composto da alcune immagini di nudo inedite e una sezione personale di fotografie scattate alla moglie Anna Piaggi, importante giornalista di moda.
Un omaggio, prima ancora che al fotografo, alla stessa Piaggi, scomparsa di recente: compagna di vita oltre che musa ispiratrice, con la quale Alfa Castaldi ha condiviso l’amore per una cultura autentica, fatta di sane contaminazioni tra discipline assai dissimili, ma determinanti per contemplare e affinare una visione estetica ricca e multiforme con la quale approcciare la bellezza nella sua quotidiana straordinarietà.
Proprio per merito di Anna Piaggi, Alfa Castaldi si avvicina al mondo della moda, dedicandosi appieno fino a diventarne uno dei più versatili e inventivi interpreti.
Il suo stile si caratterizza per la ricerca quasi spasmodica di tutti quei dettagli che spingono l’occhio oltre la mera resa formale. Alfa Castaldi non si accontenta di riprendere abiti e modelle nel rispetto dei canoni tradizionali, bensì è un ricercatore. Di tutta quella meraviglia che non trapela nell’immediato, ma va colta con una scrupolosa meticolosità, frutto di un esemplare sodalizio tra la tecnica più sofisticata e la passionale proveniente dall’interiorità.Alfa Castaldi esce dagli schemi pre condizionati per creare uno stile tutto suo: unico, inconfondibile e irripetibile. Devoto alla contaminazione tra le arti, nei suoi scatti rivela l’amore per un’espressione culturale multi sfaccettata, tripudio di tempi e luoghi diversi, e che trova in una dirompente visione unificante la validazione della sua ragione d’essere. Alfa Castaldi è proprio questa visione unificante, capace di raggruppare in sé stimoli ed espressioni, rimandi e suggestioni, dando loro una nuova interpretazione che conta delle rispettive reminiscenze e, al contempo, dona uno slancio vitale a una lettura che contempli una singolare e inedita armonia tra realtà fino ad allora inesplorate.
Correva l’anno 1968 quando, con Anna Piaggi, realizza un servizio a Praga con gli abiti di Walter Albini, Ken Scott, Krizia, Jean-Baptiste Caumont, ambientandoli fra monumenti e dimore storiche come la casa natale di Franz Kafka. E’ la prima volta che un servizio di moda per una rivista italiana viene realizzato nell’Europa dell’Est.
Negli anni Ottanta svolge, per l’Uomo Vogue, quello che appare come un reportage antropologico sulle radici popolari dello stile maschile, la “Compagnia di Stile Popolare”.
Si delinea così nel tempo l’unione sempre più forte tra moda e analisi del quotidiano, due elementi solo in apparenza inconciliabili, ma tra i quali Alfa Castaldi riesce a creare un’autentica sintonia, caratterizzata dalle note dominanti di entrambi e dalla loro assonanza.
La sua curiosità non ha limiti, tanto da indurlo a riprendere il "dietro le quinte" nelle redazioni di Donna, Mondo Uomo e Vanity; il backstage delle sfilate; i pranzi di lavoro tra stilisti, buyers e giornalisti, ma anche le fasi di produzione delle collezioni; ritratti di protagonisti del mondo della moda e del design come Giorgio Armani, Laura Biagiotti, Andrea Branzi, Michele De Lucchi, le sorelle Fendi, Gianfranco Ferré, Karl Lagerfeld, Ottavio e Rosita Missoni, Cinzia Ruggeri, Ettore Sottsass e molti altri.  E, come se non bastasse, i graffiti sui muri di Parigi.
Il suo occhio indagatore si spinge sempre oltre, non si ferma mai alle apparenze, andando a scovare, nella quotidianità delle situazioni, l’eccezionalità della cultura e dell’arte. Una sorta di ordinaria meraviglia che enfatizza come in ogni piccola sfumatura vi sia racchiuso un valore enorme: per coglierlo, è sufficiente armarsi di curiosità, alimentando lo spirito critico con cui approcciarsi alla vita intesa in ogni suo piccolo dettaglio e il desiderio di vedere, sapere e conoscere. Una sete infinita che, conquista dopo conquista, stimola a intraprendere un nuovo viaggio alla scoperta di tutto quanto di inesplorato si cela nel mondo e nella società. Nulla è scontato, al contrario porta con sé un carico di significati per nulla banale, ma profondamente legato a una super dimensione dove tutto regna e ha ragione d’esistere.
Uno spirito libero ed eclettico, incapace di fermarsi o rimanere imprigionato dentro specifici e standardizzati ranghi, ma sempre devoto alla ricerca: le sue scelte si affinano col tempo, divenendo sofisticate. Una raffinatezza che non si scorda mai dello scorrere del tempo, coniugandosi con la sapiente osservazione dei segni della fugacità esistenziale.

Biografia

Alfa Castaldi nasce a Milano nel 1926. Gli anni ’40 rappresentano il periodo della sua formazione: consegue la maturità al liceo classico Berchet di Milano e compie studi universitari, senza laurearsi, presso la facoltà di architettura, sempre a Milano. Decide poi di trasferirsi a Firenze dove frequenta la facoltà di lettere e filosofia, diventando allievo dello storico dell’arte Roberto Longhi.
Gli anni ’50 sono quelli delle frequentazioni del Bar Jamaica, l’ambiente intellettuale e artistico per antonomasia del quartiere di Brera, dove comincia a svilupparsi il rinnovamento culturale della seconda metà del ‘900. Proprio in questi anni avviene l’incontro con la fotografia, di cui rimane folgorato: inizia, così, a dedicarsi ai reportages e a collaborare con L'Illustrazione Italiana, Settimo Giorno e Annabella,pubblicando servizi sulla vita sociale milanese e sui personaggi della cultura e del cinema. Sulle medesime riviste appaiono anche reportage sul sud italiano, l'Europa del nord, la Francia e l’Inghilterra.
Nel 1958 l’incontro con la donna che diventerà, oltre che musa ispiratrice, compagna di vita: Anna Piaggi. Un legame che rafforza ulteriormente il suo eclettismo e lo avvicina al mondo della moda. negli anni ’60 collabora con le riviste Arianna, Linea Italiana e Novità anche dopo la sua trasformazione in Vogue Italia nel 1966. Un culto per il costume che lo porta ad ampliare la sua collaborazione con Vogue Italia: servizi, campagne pubblicitarie e gli appunti fotografici della rubrica intitolata "Box", l'antesignana di "D.P." – le doppie pagine di Anna Piaggi per Vogue– collage creativi, realizzate accostando frammenti di carta, tessuti e fotografie di oggetti scattate da Castaldi. Contemporaneamente, apre il proprio studio a Milano.
Negli anni ’70, pubblica l’immagine degli hot pants di Krizia, scelta come copertina per il catalogo della retrospettiva "Krizia, una storia" (1995).
Le sue collaborazioni si infittiscono sempre di più: L'Uomo Vogue, Vanity, Vogue Bambini, Vogue Sposa, Amica, Panorama e L'Espresso. Un impegno che non gli proibisce, però, di pubblicare libri come "I mass-moda: Fatti e personaggi dell'Italian look" (1979), con testo di Adriana Mulassano e prefazione di Anna Piaggi, e "L'Italia della moda" (1984), con testo di Silvia Giacomoni.
Negli anni ’80, il suo lavoro per Vogue è esposto a Milano con l’esposizione “20 anni di Vogue Italia 1964-1984”. Nel 1994, L'Associazione fotografi italiani professionisti gli assegna il premio per la ricerca e gli dedica il libro "Per la fotografia di ricerca: Premio AFIP/ADCL 1996”. Queste le motivazioni: "Attraverso un lungo percorso fotografico, Alfa Castaldi diventò una figura chiave della fotografia italiana degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, restandone al tempo stesso un consapevole outsider”. Nel 1995 muore a Milano. Tra le sue grandi qualità ricordiamo lo spirito libero e intellettuale delle origini, un’istintiva curiosità per l’immagine, sense of humour e un grande piacere personale per la fotografia di ricerca. La storia della fotografia di moda si era aggiunta, nel corso della sua carriera ai molteplici interessi culturali e negli ultimi anni era diventata per lui materia di insegnamento. Rivisitando le immagini dei grandi protagonisti della fotografia di moda, Alfa sapeva trasmettere ai suoi allievi un patrimonio di conoscenza, di esperienza personale e di gusto per l’immagine. Le sue analisi critiche e la sua profonda cultura fotografica sono state, per i suoi giovani allievi, altrettanti stimoli a portare avanti nuovi messaggi creativi”.
Il suo archivio è raccolto e conservato dal figlio Paolo presso la Blue Box di Certaldo, in provincia di Firenze. Le immagini, consultabili all’indirizzo www.alfacastaldi.com, sono una selezione dalle circa 12.000 immagini archiviate negli ultimi anni.


Alfa Castaldi
fino al 30 marzo 2013
martedì, venerdì, sabato e domenica, ore 10.30 – 19.30
mercoledì e giovedì, ore 10.30 – 21.00
lunedì, ore 15.30 – 19.30

Galleria Carla Sozzani
Corso Como 10 – 20154 Milano, Italia
tel. +39 02.653531 - fax +39 02.29004080 - press@galleriacarlasozzani.org

LEISURE_Vionnet e Thayaht: una mostra al Poldi Pezzoli

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Come nelle migliori tradizioni che si rispettino, arte e moda rivelano di essere due discipline che si attraggono reciprocamente, sviluppando liaison dagli esiti stupefacenti, a validazione della loro intima intesa quali espressioni figurative dello stile e dell’eleganza. Sebbene in modi diversi, infatti, arte e moda attingono alla più autentica tradizione culturale dell’epoca e/o del luogo al quale si riferiscono, tramandandone le caratteristiche, i dettami, le ispirazioni, i valori. Rappresentano, in altre parole, uno studio figurato di un tempo e di uno spazio, conferendo una sorta di eternità esistenziale.
Nel momento in cui si incontrano, mostrando in quale misura sono in grado di influenzarsi reciprocamente, dando l’una all’altra – e viceversa – stimoli e interpretazioni, capisaldi per la mise en place di nuove visioni e chiavi di lettura della società. Proprio in virtù di ciò, la loro contaminazione risulta sempre meravigliosamente sorprendente: mai scontata o banale, non passa inosservata, bensì invita lo spettatore a un’indagine approfondita che si spinge oltre la mera apparenza formale di abiti e accessori, confermando la sua ragione d’essere nella più profonda reminiscenza artistica.
Protagonista ora di un simile occhio d’analisi, la fertile collaborazione tra Madeleine Vionnet e l’artista futurista Thayaht, visibile in una mostra organizzata dalla Maison Vionnet, in collaborazione con W, negli spazi del Museo Poldi Pezzoli di Milano, dal 21 al 25 febbraio 2013 in occasione della settimana milanese della moda. Già dal titolo - "Thayaht. Between art and fashion"– l’esposizione rivela il suo lato topico, ossia l’indagine tra arte e moda; a corollario, l’allestimento che conta 61 disegni recentemente acquisiti e mai esposti nei quali prende vita il lavoro a quattro mani tra Madeleine Vionnet e Thayaht, al secolo Ernesto Michahelles (1893– 1959), pioniere dell'industrial design e inventore, tra molte altre cose, della Tuta.
Due vite che in molte occasioni, in particolare dal 1919 al 1925, hanno avuto modo di incontrarsi: l’artista, infatti, dapprima aveva realizzato il logo della Maison per poi essere coinvolto in un progetto ben più ampio e complesso, diventando traduttore visivo e interprete artistico della stilista. In altre parole, a lui va il merito di aver riprodotto per anni i capi inventati da Madeleine Vionnet, che non era solita disegnare ma, piuttosto, lavorare direttamente su un manichino miniaturizzato alto ottanta centimetri, in prestigiose illustrazioni dallo stile inconfondibile, molte delle quali pubblicate sulle pagine della Gazette du Bon Ton, la più sofisticata rivista di moda dell’epoca. Un modo per così dire antesignano delle recenti campagne di moda su carta stampata e dei moderni look book.
L’interesse per la geometria del taglio e la libertà dei movimenti contraddistinguono il lavoro di Thayaht, che si traduce in un linguaggio visivo unico, togliendo ogni inibizione e conferendo dinamismo. La moda assume così una particolare visione, quintessenza di cultura e progresso nonché testimonianza dell’approccio unico e inconfondibile di Madame Vionnet, devoto alla liberazione del corpo da ogni costrizione.
Un’heritage importante, che ancora oggi torna ricorrente in ogni collezione, a dimostrare che il futuro della Maison non può prescindere dal glorioso passato, anzi, deve recuperarlo e attualizzarlo. Si crea, così, una fluida continuità tra le radici e il domani, passando per un presente fatto di ispirazioni e ricerca. Una sperimentazione che, doviziosa e puntuale, ripercorre i fasti d’archivio per rileggerne in chiave contemporanea i dettami immortali. Ancora oggi, la Maison lavora su manichino, drappeggiando a mano come era solita fare la stessa Vionnet, che in Thayaht aveva trovato l’artista in grado di interpretare il suo stile con un senso di movimento e colore.
Oltre ai sessantuno disegni, in mostra anche una particolare creazione d'archivio, fotografata attraverso una speciale tecnica tridimensionale.
Un’esposizione che sottolinea il programma culturale di Madeleine Vionnet, volto al recupero delle tradizioni, e, al tempo stesso, afferma l’importanza del dialogo tra Italia e Francia, veri protagonisti del presente della Maison, improntato a un futuro che, con lungimiranza, guarda al passato.

Thayaht. Between art and fashion
Museo Poldi Pezzoli
Via Gerolamo Morone 8-12, Milano
Dal 21 al 25 febbraio 2013 

STYLE_Il nuovo Zoo di Krizia

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Krizia, la signora della moda italiana, anche per l’autunno/inverno 2013/14 stupisce ancora. E non lo fa gridando mode ostentate, mises tanto improbabili quanto azzardate, abbinamenti dall’effetto immediato ma fugace, bensì proponendo, come da sua tradizione, uno stile d’avanguardia, visionario e lungimirante quel tanto che basta per guardare al futuro con il benestare della tradizione, coniugando sapientemente heritage e slancio avveniristico, sulla scia di un’originale lettura interpretativa. Il tutto in bilico tra realtà e fantasia. È così che nasce il nuovo Zoo di Krizia, che tanto piacerebbe a Jorge Luis Borges al punto da essere inserito in una nuova edizione del suo famoso “Manuale di zoologia fantastica” o “libro degli esseri immaginari”, che lo scrittore invitava a sfogliare “come chi gioca con le forme mutevoli svelate da un caleidoscopio”.
Uno zoo tutto particolare, composto da animali onirici, frutto di contaminazioni fra specie, che danno vita ad accoppiamenti imprevisti: la zebra si mescola con la giraffa o con la tigre, la volpe con la mongolia o la marmotta, il visone meticciato addirittura con un’inedita creatura geometrica. Il risultato è sorprendente sia sotto forma di pelliccia, sia come stampati o ricami o dévorè. Una meraviglia che si capta già dalla prima uscita: un’ispirazione pantera mixata al biker, in un gioco di flessuose silhouette in pelle nera che offrono un’immagine enigmatica.
Un intrecciarsi di accostamenti che porta all’esaltazione del mix, identificandolo quale caposaldo dell’intera collezione. Maschile e femminile, luci e ombre, Oriente e Occidente (leggibile un'influenza Samurai) si fondono in un rinnovato gioco di contrasti, in una sorta di canone inverso.
 E' una moda pensata per una donna fiera e combattiva, ma pronta a difendere certe sue fragilità nascoste sotto simboliche armature, seduttivi bustini di pelle nera trattata come una leggera corazza traforata al laser, con strisce intrecciate, lacci, e poi nervature, plissé e matelassé a creare volume ed enfatizzare le spalle. Queste ultime sono diritte nei capi in tessuto, rotonde in quelli in pelle, addirittura a pagoda in certi accessori-catafratta d'ispirazione giapponese, in pelle traforata e legata con punti metallici.
Maschile e femminile giocano in un rimando d’ispirazioni e intuizioni, mischiando le carte al punto da contaminarne la reciproca appartenenza: ecco, quindi, che le giacche, i tailleurs, i cappotti prendono spunto da un guardaroba sartoriale da vero gentleman - con tanto di smoking - reinterpretato per irresistibili femmes fatales. Et voilà!, pronti a incantare con la loro silhouette, pantaloni dal taglio asciutto e abiti di gusto couture, ma attualizzato.Il plissé, dettaglio immancabile in ogni collezione firmata Krizia, viene ripreso con un nuovo gessato, che induce un inatteso chiarore sulla cresta delle onde o in un disegno a losanghe o in pelle.
I materiali sono preziosi, sia nella loro natura che nei trattamenti: pelle, camoscio, pelliccia reinventata, cachemire, seta, doppio raso spesso tagliato al vivo, velluto dévoré, laminati al platino, ricami all over. Il tutto all'insegna del mix.
Per quanto concerne le note cromatiche, si passa dal nero assoluto al platino, che illumina con effetti optical, alla dolcezza dei beige polverosi, sino alle gradazioni sempre più accese del vinaccia, per culminare nel rosso lacca. Sera in platino rilucente, ça va sans dire.
Altro tratto distintivo del dna Krizia, la maglieria, interpretata per la prossima stagione fredda con nuovi effetti hand made, o pieni e vuoti, in una rete con filato in contrasto, in un mix di lana e nylon trasparente. Tricot avvolgenti danno luogo a cappotti lunghi anche con fodera fiammante; spalmature lucenti; effetti plissé, metal-caleidoscopici; intarsi animalier che creano forme in movimento.
Nulla è lasciato al caso, diventando parte integrante di uno stile avveniristico. Sul côté accessori, largo spazio a gorgiere, collari e bracciali in pelle traforata; scarpe gioiello, con tacco platino 12 cm e decori brillanti in platino o cristallo e motivi di maculati immaginari; stivali aperti con leggere trame di lacci e intrecci, e così certi sandali; anelli con teste di fiere geometrizzate.
La donna Krizia avanza fiera e sicura, avvolta da quell’alone di prestigio ed esclusività che l’accompagna nella frenesia urbana, distinguendola per l’eccellenza del suo stile, emblema di un’eleganza senza tempo. Unica e magistrale. 

PEOPLE_Romeo Santamaria: una passione che viene dal passato

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Giornate di moda a Milano dove si è conclusa la fashion week, che ha presentato al grande pubblico le tendenze per la prossima stagione autunno/inverno, in un susseguirsi di sfilate, presentazioni e appuntamenti glamour. Al centro lei, la moda, celebrata dai grandi marchi e da nuovi talenti con collezioni che hanno declinato una creatività sapientemente dosata all’effettiva portabilità di capi e accessori che fanno la differenza per forme stilistiche, gusto estetico e senso dello stile.
A far da sottofondo, un crocevia di persone e culture, nell’enfatizzazione di una società sempre più cosmopolita e interrelata, in cui la moda troneggia quale vero e proprio fenomeno autenticatore dell’affermazione sociale e identitaria di ciascuno di noi. Siamo quello che vestiamo, in poche parole, così come vestiamo quello che siamo. Ecco perché le settimane della moda attirano sempre così tanto pubblico: perché, in un certo modo, complici show spettacolari ed effetti sorpresa, propongono in chiave romanzata uno spaccato della società in cui viviamo, implicandone tendenze, valori, intuizioni e ispirazioni.
Una società, quella attuale, che essendosi trovata in molti casi troppo avanti rispetto alle sue effettive disponibilità cognitive, deve necessariamente fermarsi, compiere un passo indietro e guardare al passato per recuperare un’eredità di stile da attualizzare in chiave moderna, compiendo quella sana contaminazione temporale grazie alla quale affacciarsi sul futuro con una solida consapevolezza della tradizione.
Ecco, quindi, vecchie glorie che tornano agli onori della cronaca, complice l’apertura di vetrine nei salotti della moda internazionale. Ne è un esempio la boutique di borse e accessori in pellami preziosi Romeo Santamaria, aperta il 23 febbraio in via Della Spiga 5 a Milano. Un marchio che vanta le proprie origini in una bottega artigiana milanese, fondata nel dopoguerra da Santo Santamaria, e sviluppata a livello internazionale dal figlio Romeo. Il brand ora rivive una seconda giovinezza al punto da presentarsi in grande spolvero con l’intento di presidiare le fasce più alte di mercato. Fiero e consapevole dei propri punti di forza e basandosi su un recupero attento e scrupoloso della tradizione produttiva, il marchio ha strutturato uno strutturato progetto di lancio, accompagnato da una campagna stampa e outdoor firmata Giovanni Gastel.Concept creativo è l’espressione Inside Beauty: una bellezza interiore, raccontata in chiave riservata e personale, proprio come la borsa protagonista della creatività, “Opera”.Opera” è la shopping bag icona della Maison, portavoce dei suoi valori fondamentali: realizzata in pelle di coccodrillo, svela la sua particolare texture solo al suo interno, quasi a evocare un lusso privato, intimo e mai ostentato, dove la ricerca del bello e del sogno è riservata solo a chi la sceglie. In un’epoca di ritorno alle origini, dove non vi è bisogno di gridare quello che si ha o si è e in cui ogni orpello manifesto deve lasciare spazio al sussurro, l’evocazione assume un ruolo cruciale. Ogni dettaglio, sia che riferisca allo stile piuttosto che alla forma, deve fare la sua comparsa in modo discreto e non invasivo, stimolando il gusto e la ricerca personale a un gioco di rimandi e visioni che affondano la loro ragione d’essere in un recupero della tradizione, chiave di volta per interpretare il futuro. Romeo Santamaria conosce bene questa tradizione e la rispolvera nel migliore dei modi, creando borse e accessori per una donna consapevole del prestigio ad esso associati e che non ha bisogno di ostentare in quanto conoscitrice ed estimatrice del valore intrinseco di simili oggetti del desiderio. Questa è la donna di oggi: esperta ed esteta, ma mai enfatizzante il proprio status; attenta ai dettagli e amante del bello, ma in ogni caso discreta e riservata. Lei non grida, casomai sussurra ed evoca, invitando a un viaggio incantato nel meraviglioso mondo dei significati. 

STYLE_Fedra: la borsa icona di Tiziana Fausti

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Mai come ora si fa vivo nello spirito creativo di marchi e Maisons il recupero della tradizione, un dogma a cui affidare la cifra stilistica di un’epoca come quella attuale che, arrivata oltre l’umana concezione del concepibile, deve inevitabilmente fermarsi e guardare indietro a un passato fatto di gloria e prestigio, recuperandone i tratti esistenziali quali tesoro prezioso da custodire e far rivivere nei giorni nostri, attualizzato nelle forme ma intatto nella sostanza.
Spesso recuperare la tradizione vuol dire attingere ai propri archivi, rileggendone le peculiarità– tessuti, forme, tagli, volumi - e donando loro nuova vita. In altre parole, scovarne i dettagli salienti e reinterpretarli.
Talune volte, però, recuperare la tradizione significa raccontare la storia di famiglia, vuoi affidandola a un diario, vuoi raccogliendola nelle pagine di un libro o, ancora, trasformandola nella sceneggiatura di un film.
Vi è poi chi, come Tiziana Fausti, proprietaria dell’omonimo e prestigioso multibrand di Bergamo, ha deciso di narrarla in una borsa, facendo tesoro dei ricordi delle lunghe giornate trascorse in campagna con il padre e dell’ispirazione proveniente dal mondo dell’equitazione da lei frequentato sin da piccola. Nasce, così, una borsa capiente, che sprigiona un’allure hunting tramite una serie di piccoli ma significativi dettagli: l’infilatura a mano di una fettuccia nel bordo esterno, che reinterpreta particolari delle capezzine sulla fronte del cavallo; i manici lunghi, da spalla e da braccia; la tracolla interna, che rielabora le cartucciere per portarla a bandoliera. Last but not least, a siglare il recupero della tradizione tout court, l’essere sfoderata, tranne che per alcuni pellami, come sfoderata era la prima borsa in cuoio realizzata dalla famiglia.
Una famiglia che, dal dopoguerra, ha fatto della pelletteria e della sua evoluzione il fulcro della propria attività, sviluppando un nuovo modo di intendere il negozio, vero tempio votivo in cui trovare articoli di qualità e avanguardia. Una vocazione alla base dello spirito critico con cui Tiziana Fausti apre il suo primo negozio: correva l’anno 1979 e in soli 16 mq prendeva vita il culto per gli accessori, una devozione antesignana del più recente spazio bergamasco (China Red) e di quello di prossima apertura in terra elvetica nella città di Lugano. 
Perché questo è un mondo prediletto, al quale oggi si aggiunge, di diritto, la borsa icona, Fedra, numerata e timbrata, a sigillarne personalità e qualità e a dimostrarne la grandissima cura con cui è creata, impiegando pellami dalle lavorazioni pregiate. Un prestigio validato dalla versione deluxe, realizzata in limited edition con pelli di cocco Louisiana, appartenenti all’archivio di casa da oltre trent’anni.
Un modello iconico, declinato in vari pellami e realizzabile in 18 cromie diverse tutte nei toni mat, quintessenza della prestigiosa heritage della Pelletteria Fausti. Partendo dalla valorizzazione del background famigliare e della tradizione produttiva nel settore, questa borsa gioca molto su un’immediata riconoscibilità, conferita da un mood e un dna che garantiscono le sembianze di uno stile senza tempo. Pensata per una donna sportiva, dinamica, cosmopolita, che viaggia e lavora senza però disdegnare il côté chic e femminile, Fedra prende ispirazione dalla selleria anni ’40 e dal mondo dell’equitazione e della caccia, strizzando l’occhio alla più pura tradizione anglosassone in quest’ambito.
Il risultato, una borsa icona dallo stile inconfondibile, complici alcuni elementi che ne siglano l’autenticitàquali: il rivetto personalizzato con il logo TF e costruito riprendendo quello ereditato dal bosso della cartuccia a fiocchi; l’ispirazione ai primi coloni d’America, resa possibile dalle forme in perfetto stile vecchia America, riprese nella foggia ma ripulite per non sembrare troppo western; la tracolla interna, che permette di portarla a Bandolière nel ricordo evocato delle redini, e le lunghe maniglie da spalla, che consentono una versatilità d’utilizzo nonché un’alternativa funzionale;  la presenza, nel bordo esterno, dell’infilatura a mano di una fettuccia di cuoio, grazie alla quale reinterpretare i dettagli delle capezzine della fronte del cavallo.
La versione iconica nasce sfoderata, riprendendo la tradizione del primo modello di famiglia. Tuttavia, vi è la possibilità di foderare alcuni pellami con drill di cotone italiano 100% tramato che, attraverso serigrafature e lavaggi, assume una texture macchiata, quasi camouflage, con un logo effetto vedo non vedo appena accennato in modo da non essere mai a contrasto. Al fine di garantirne funzionalità e praticità, all’interno è stata inserita una mini clutch, ossia una sorta di tasca completamente staccabile, che viene ripiegata a mano e fermata con un cinturino in modo da renderla irresistibile accessorio per la sera.
Fedra è pensata in vitello rullato liscio molto opaco: un aspetto materico che gli conferisce la solidità del cuoio, ma, nello stesso tempo, la morbidezza di questo pellame. Il colore must have è il gianduia, seguito da nero, testa di moro, cognac e verde militare. Ma non è tutto…una Fedra per ogni occasione e ogni esigenza verrebbe da dire dal momento che sono previste numerose varianti di pellami. Et voilà! che diventa preziosa nella versione in cavallino di mucca selvaggia, grazie a un trattamento agli oli di Marsiglia che rende il pelo rasato e, al contempo, lucente come quello di purosangue da corsa. I colori disponibili – e solitamente insoliti nel cavallino – sono il maculato, il senape brillante tendente all’oro, il ciclamino, il lucente verde bosco e il celeste. Morbida al tatto e alla vista, invece, in nappa plongé, ottenuta da pellame di capra, plasmato su un mood selleria arrotolabile. Vera cromia cool, il nero. Classica e amante della tradizione in vitello grana dollaro, tipica lavorazione adorata delle griffe di accessori. Numerosi i colori disponibili: bianco, blu royal, giallo canarino, mandarino, verde militare e rosa bubble. Particolare e pronta a calamitare sguardi e attenzioni, la versione in vitello di Marsiglia ricamato, speciale texture con borchiature, rivetti, infilatura sottosella. Vera e propria ispirazione mexican, che ricorda le vecchie borse a sella del Far West. Due super colori: galvaniche fumé nero opaco e terra. E infine, dulcis in fundo, la limted edition con pelli di cocco Louisiana, provenienti dall’archivio storico di famiglia. Irresistibili i colori: verde prato, giallo canarino, blu royal, mandarino e testa di moro.
Ogni borsa Fedra è timbrata, numerata e firmata, nel rispetto di una tradizione che fa del prestigio e dell’eccellenza le chiavi di volta per perseguire un ideale iconico di stile ed eleganza, impassibile allo scorrere del tempo e sempre pronto a brillare di luce propria. 

LEISURE_Un'ode alla carta!

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An ode to paper EATING FASHION. Il cibo non è mai stato così di moda. Strano a dirsi, visto che i due termini sembrano universi imparagonabili se messi sullo stesso piano, eppure è proprio così. Corsi di cucina affollatissimi e inflazionate apparizioni televisive di chef e super chef a parte, il fashion food si rivela uno degli aspetti più interessanti nel panorama culturale contemporaneo, coinvolgendo due mondi che molto hanno da dire: la fotografia e l’editoria indipendente. Molteplici, infatti, sono le identità che la prima può assumere in relazione alla seconda. Urge, quindi, diffondere la consapevolezza e la coscienza di questa fascinosa realtà sia nei suoi contenuti che, soprattutto, nella forma visiva, dando importanza a un nuovo modo di comunicare, distante dai canoni più tradizionali.
Il progetto curatoriale ed espositivo An Ode to Paper prevede la ricerca e la selezione di progetti editoriali indipendenti, spaziando dai fashion magazine alle fanzine realizzate per mostre allestite in contesti domestici urbani, dal life-style al design, dal food all'architettura. In altre parole, un'ode alla cartanella nostra epoca digitale, come enunciato a gran voce dal titolo della mostra. Il primo appuntamento del 2013 – inaugurato in concomitanza di Milano Moda Donna - coinvolge Essen | A Taste Magazine, il primo magazine worldwide - attivo dal 2010 - a concepire il food in modo trasversale attraverso interviste e approfondimenti. Un prodotto editoriale sartoriale, si potrebbe definire, che si fa sedurre dal cambiamento, indagando tutte le forme di questa materia edibile. Corridor and Stairs, lo spazio espositivo e fotografico milanese di Mauro Grifoni, ospita fino al 25 marzo una selezione di scatti scelti tra gli editoriali di Fashion Food realizzati dai fotografi del magazine indipendente (Carolina Amoretti, Andrea Artemisio, Mara Corsino, Federico Garibaldi, Andrea Massaro, Nadia Moro, Silvia Puntino, Delfino Sisto Legnani). Il magazine ha cercato di creare un vero e proprio canale di ricerca formale e fotografica mai concepita prima come tale. Grandi fotografi del passato si sono misurati con la fotografia di moda legandola al cibo: Essen | A Taste Magazine ne fa un vero e proprio genere, affermando l'idea che Fashion e Food siano la chiave contemporanea per la definizione dello stile.
Per l'apertura della mostra, Essen | A Taste Magazine ha ideato uno special project dedicato alle "zine": incrEDIBLE zine. Ironia editoriale del cibo che, stampato e raccontato, questa volta si mangia. Realizzato con la collaborazione di Linda Troni, già food talent di Essentaste e ora food designer a pieno titolo, il progetto ha sperimentato una stampa su cibo 3D. Mangiarsi una ricetta, ora, non è più solo una metafora.


AN ODE TO PAPER/
EATING FASHION
Corridors and Stairs
Via Santo Spirito 17, Milano
Fino al 25 marzo 2013 

ABOUT_Miss Dior: cultura della couture

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Una data cardine - 12 febbraio 1947 - nella storia della Maison Christian Dior: il giorno da cui placidamente, couture, cultura, lusso, profumeria, moda e società non sono più stati gli stessi.
Questo - e molto altro ancora – è il significato valoriale attribuito al profumo Miss Dior, creato da Jean Carles e Paul Vacher e lanciato per l’appunto nel 1947, diventando un’icona nel mondo delle fragranze così come nella storia della Maison.
Quello che più ricordo sulle donne che hanno fatto parte della mia infanzia è il loro profumo; il profumo dura molto di più del momento”, era solito asserire monsieur Christian Dior, tanto da ribadirlo nella sua biografia Je Suis Couturierdel 1951. Dior, cultore del lusso assoluto in ogni suo benché minimo dettaglio, da grande amante dei fiori quale era, diceva che “il profumo è un accessorio indispensabile alla personalità femminile, ed è il tocco finale nei miei vestiti.
Poche e semplici le istruzioni che Diordiede ai “nasi” Jean Carles e Paul Vacher incaricati di dare vita alla fragranza: “Create un profumo che sia come l’amore.” Giusto il tempo di metterle in pratica e il profumo aveva trovato realizzazione. Tuttavia, non si trovò con altrettanta facilità un nome adeguato fino al giorno in cui Mitzah Bricard, autentica musa del couturier, vedendo entrare Catherine Dior, sorella di Christian, nell’atelier di Avenue Montaigne  30 esclamò: “Voila Miss Dior!.” Un’affermazione spontanea e immediata tanto quanto l’esultazione di Monsieur Dior nell’esclamare “Miss Dior, ecco il nome per il mio profumo!”, conquistato dalla magia evocativa di un simile appellativo.
Una fragranza curata in ogni dettaglio, evitando di lasciare ogni qualsivoglia elemento al caso, tanto da accompagnarlo con un flacone speciale: una bottiglia di vetro squadrata e dal design molto essenziale, progettata da Guerry Colase realizzata da Cristalleries de Baccarat.
Il profumo Miss Dior arrivò nei negozi contemporaneamente alla linea di abbigliamento, legata al concetto di New Look dello stilista, finendo per esservi associato.
A René Gruau
, celeberrimo illustratore dell’epoca nonché fidato collaboratore di Christian Dior per il quale disegnò la maggior parte delle iconiche pubblicità dei profumi, il compito di presentare a livello figurativo la fragranza. Erano ancora lontani i tempi delle moderne tecnologie utilizzate oggigiorno: i disegni, pertanto, rappresentavano la comunicazione pubblicitaria per antonomasia, dando un’allure del tutto nuova alle presentazioni degli abiti. I bozzetti di René Gruau, in particolare, avevano il pregio di evocare il glamour e lo stile dell’haute couture.
Il 1947 si pone come un anno emblematico per la storia della Maison Dior: a fianco del lancio di Miss Dior, infatti, veniva fissata la prima sfilata per il 12 febbraio. La società stava attraversando un periodo delicato: sono gli anni dell’immediato dopoguerra, dove le materie prime scarseggiano e i consumi sono ancora lontani dall’impennata che ne caratterizzerà l’andamento dell’epoca successiva. Relativamente al mondo della moda, i capi d’abbigliamento non abbondavano, spesso erano rimediati e, in ogni caso, si trattava di abiti poco confortevoli, austeri e dalle lunghe gonne al ginocchio che richiamavano nella silhouette gli abiti degli anni ’30 di Elsa Schiaparelli. Il sistema commerciale della moda di Parigi, che aveva dominato la scena internazionale sin dal 18° secolo, versava in condizioni di grande precarietà. Alla luce di queste semplici considerazioni si comprende facilmente come vi fosse bisogno di entusiasmo. Un entusiasmo che Dior mise a disposizione attraverso una collezione di lussuosi abiti con morbide spalle, “vitini da vespa” e fluenti gonne dedicate a donne che lui chiamava “donne fiore”.“E’ una grande novità, caro Christian,” disse Carmel Snow, influentissima editor di Harper’s Bazaar America. “I tuoi abiti hanno un incredibile nuovo look.” Un nuovo look che a ragion veduta venne battezzato New Look, sposando le esigenze e le aspettative del dopo-guerra: richiamava le lunghe gonne, le vite strette e i bellissimi tessuti della Belle Epoqueche sua madre aveva indossato agli inizi del 1900.
Miss Dior,presentato nello stesso anno della prima collezione di abiti, incorporò lo spirito della Maison Dior e divenne all’istante un profumo di haute couture. Un’eccezionale simbiosi che divenne regola di vita per la Maison che ogni settimana nella prima boutique Dior, dal 12 febbraio 1947 – giorno dell’inaugurazione – prese l’abitudine di spruzzare più di un litro di profumo.
E oggi, a distanza si oltre sessant’anni, quello stesso mito rivive grazie allo short film Voilà Miss Dior, incantevole collage di storie e immagini relative alla nascita di questo straordinario profumo, che ha segnato una traccia indelebile nella storia dell’eleganza firmata Christian Dior.Da Catherine Dior– sorella di Christian Dior – a Mitzah Bricard, Marlene Dietrich, Grace Kelly e Nathalie Portman il prestigio della Maison si propone intatto nella sua fulgida essenzialità e purezza, sulla scia di un’etera ed elitaria atmosfera. La stessa che da sempre accompagna lo stile Dior. 

STYLE_Buon compleanno morsetto!

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60 anni e non sentirli! Anzi, andare fieri dello spirito che ne ha contraddistinto l’aspetto, ponendolo come un vero e proprio cult nel panorama dello stile, accessorio immancabile nel guardaroba di ogni estimatore del buon gusto che si rispetti, icona scelta da personaggi dello star system, simbolo per antonomasia dell’universo Gucci, declinato in un’eleganza di uso quotidiano.
Il morsettocompie sessant’anni e il museo Gucci di Firenze gli dedica una mostra dove ne raccoglie storia e innovazione, creando un ideale parallelismo tra tradizione e contemporaneità, come nella più bella delle leggende, che vuole il passato sposato al futuro in una rievocazione concertata di valori e significati.
L’esposizione offre una panoramica su questa calzatura, indossata da uomini famosi negli anni ’50 e ’60 ed entrata di diritto, nel 1985, nella collezione permanente del Metropolitan Museum of Art, fino ad arrivare alle varianti odierne.
Immagini in bianco e nero, che ritraggono le stelle hollywoodiane con indosso i famosi loafer, sono accostate ai modelli provenienti dall’archivio storico Gucci, ai quali è lasciato il compito di mostrare l’intera costruzione e l’applicazione del rinomato dettaglio a una serie infinita di materiali.
Diversi i pellami, dalla morbida nappa al prezioso pitone, fino ad arrivare all’abbinamento con altri simboli della Maison, come il nastro a strisce, il bambù e le doppie GG, ma inalterato lo stile che brilla di un’allure unica e rarefatta, sofisticata e prestigiosa, volta a conferire fascino ed eleganza nel rispetto di una sana e confortevole portabilità.
Alle varianti di pelle si aggiungono, poi, quelle di modello: dalle versioni con il tacco a quelle per così dire ibride, ossia in bilico tra mocassino e stivaletto. Con qualche piccola chiccheria come le calzature realizzate per Madonna agli MTV Music Awards, per Brad Pitt in Fight Club o per una giovanissima Jodie Foster.
A corollario della celebrazione di un così importante anniversario, la realizzazione dell’esclusiva Collezione 1953 per l’uomo e per la donna. Ideata dal direttore creativo Frida Giannini, propone un’audace combinazione di colori e materiali nonché una nuova forma caratterizzata dal dettaglio in metallo divenuto una vera e propria tradizione.
Correva l’anno 1953 quando Guccio Gucci si appropriò per primo del motivo con doppio anello e barra, ispirato al mondo equestre, e lo applicò al mocassino da uomo. Nel giro di pochi anni, queste scarpe accompagnarono i passi verso la gloria di star di Hollywood del calibro di Clark Gable, John Wayne e Fred Astaire.
Questa nuovo modello di calzatura è realizzato con una costruzione tubolare che richiede eccezionali capacità artigianali. Solo alcuni calzolai selezionati possiedono l’esperienza e la manualità necessarie per questa lavorazione altamente specializzata: affinché la scarpa sia leggera, flessibile e confortevole, la soletta interna è assente dalla costruzione. Un dettaglio, quindi, che richiede una notevole abilità nel lavorare le pelli, tanto che, per decenni, gli artigiani di Gucci si sono tramandati di generazione in generazione questa tecnica, mantenendo viva la tradizione.
Il mocassino 1953 è disponibile in un’ampia palette di colori e materiali: dalla vernice al suede, dai pellami pregiati come il coccodrillo e il pitone al pratico canvas con il famoso motivo Flora della Maison. Il morsetto può essere in ottone anticato o in nickel, mentre un particolare modello è decorato con borchie ripetute sulla tomaia, sui profili e sul retro. All’interno di ogni mocassino, un’etichetta speciale con la scritta “Gucci 1953 Made in Italy” rievoca l’avvento di questo modello nel vocabolario dello stile della Maison sessant’anni fa. Oggi come allora, il mocassino con morsetto è legato alla filosofia con cui è stato creato: un classico da indossare e amare per sempre. 

LEISURE_Terra nelle scarpe: idee, gesti e valori che camminano

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Siamo a Milano, nella capitale della moda, teatro privilegiato in questi giorni di fiere come Mipel e Micam, che pongono al centro dell’attenzione pelle e calzature, favorendo l’incontro di buyer, giornalisti e operatori del settore. A corollario, gli eventi collaterali si moltiplicano, andando a costituire una fitta ossatura di appuntamenti mondani che animano la città. Tuttavia, ve n’è uno degno di nota, in cui non si parla né di moda né, tantomeno, di scarpe: Terra nelle scarpe. Una mostra speciale, realizzata dall’artista vicentino Antonio Gregolin e visitabile sino al 7 marzo negli spazi dello storico Palazzo Isimbardi, sede della Provincia. Speciale nel concept, che pur facendo palesi riferimenti al mondo della moda, rimanda a una serie di valori e significati ben diversi, legati, piuttosto, al pianeta Terra, al rapporto che ciascun essere umano dovrebbe avere con esso e, più in generale, con la storia. Non è una mostra sul trendy, quindi, ma sulla civiltà che ha visto nella scarpa qualcosa di più di un semplice accessorio. Una perfetta alchimia quella pensata da Gregolin, noto per la sua creatività che sconfina spesso nelle tematiche ambientali, dalla Land art alla ricerca antropologia. “Dalle scarpe infatti– diceva Forrest Gump nell’omomimo film- si possono capire molte cose di una persona…”: un’affermazione che calza a pennello per questa mostra dai toni didattici, dove si trovano scarpe della storia e della memoria. Scarpe dello spirito. Scarpe comuni come oggetti da museo. Scarpe di personaggi famosi. Scarpe della musica. Scarpe dello sport. Scarpe dell’arte. In ogni caso, tutte indossate da figure che hanno contribuito a vario titolo con un segno, un messaggio, un gesto verso il nostro pianeta.Non ho pensato ad una mostra feticistica– spiega l’artista-, ma a qualcosa che sposa l’arte con l’utilità, che diventa qui identità culturale”.
Oltre settanta le scarpe esposte in un allestimento suggestivo e particolare, sotto i rinascimentali archi del peristilio di Palazzo Isimbardi, trasformato, per l’occasione,  in un sentiero di scarpe-simbolo che vanno oltre il tempo. Non vi è da meravigliarsi, quindi, se le povere scarpette di legno del protagonista de L’Albero degli Zoccoli di Ermanno Olmi, sono accostate a quelle più moderne del maestro del cinema. A queste si aggiungono le scarpe da cava dell’allora giovane Mauro Corona, oggi affermato scultore, scalatore e scrittore di montagna, così come scarpe “dalle suole consumate dei reporter” - come intimava Indro Montanelli ai giovani apprendisti giornalisti - che appartengono a due maestri contemporanei della carta stampata e della televisione quali Ettore Mo e Toni Capuozzo, eredi quasi ultimi di quell’andare per strada a caccia di notizie. Direttamente dai musei della Grande Guerra, poi, sono esposte le scarpe dei soldati austriaci e italiani, come quelle dei deportati nei campi di concentramento tedeschi.
Gregolin nella sua originale ricerca ha intrapreso, inoltre, i sentieri spirituali, bussando alle porte di conventi e monasteri convinto che anche nelle scarpe ci siano segni dell’anima: ha, così, trovato scarpe fatte a mano e mai uscite prima dai monasteri femminili di clausura; le “pantofole liturgiche” dei monaci armeni dell’Isola di S.Lazzaro-Venezia; i sandali francescani nonché quelli di un pellegrino di Santiago fino ad arrivare a un paio di sandali del 1530 del beato Antonio Pagani, venerando predicatore nel Concilio di Trento, usciti per la prima volta per l’occasione, dal reliquiario del convento francescano vicentino di S.Pancrazio di Barbarano.
Più profane ma non meno significative, le scarpe sportive di Alex Zanardi, pluricampione paralimpico, Nives Meroi, la scalatrice degli ottomila e le “scarpe –piede” di Tom Perry , lo scalatore a piedi nudi di fama mondiale.
Nell’intero percorso espositivo domina un’atmosfera particolare, che si traduce nel tempo delle scarpe e nella storia degli uomini. Può, quindi, accadere che si abbia l’impressione di sentir sussurrare parole, che evocano pensieri ed emozioni, diventando ricordi di vita, di chi ha calzato queste scarpe ma anche semplicemente di chi si è trovato a essere protagonista-spettatore di un’epoca.
Scarpe che parlano, divenendo segni del tempo e, al contempo, autentici spunti di riflessione, nel rispetto della più sana tradizione secondo la quale “la felicità comincia dai nostri piedi e con le scarpe camminano le nostre idee” .

Terra nelle scarpe
Palazzo Isimbardi, Corso Monforte 35, Milano
Fino al 7 marzo 2013 

ABOUT_Le invenzioni di Salvatore Ferragamo

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Salvatore Ferragamoha anticipato modi e mode nel design della scarpa. A lui il pregio d’aver inventato forme, partendo dalla presa di consapevolezza delle effettive esigenze funzionali che suggeriscono l’aspetto, come nel caso della zeppa di sughero, nata nel 1937 per dare stabilità al tallone e poi diventata un segno distintivo dell’epoca. Coinvolto dal suo tempo, non resta indifferente a ciò che contemporaneamente avviene nel mondo dell’arte, del design e dell’architettura. La sua scarpa datata 1939 con alta zeppa a mosaico, per esempio, ricorda il gusto degli anni ’30 per gli apparati musivi in edifici o interni privati. La creatività di Ferragamo è sempre andata in tandem alle evoluzioni culturali delle epoche attraversate, contribuendo al successo del design e della moda italiani con invenzioni che hanno segnato la storia della calzatura e che, tuttora, forniscono spunti d’ispirazione agli stilisti contemporanei, dal sandalo invisibile del 1947 al fiosso fasciato del 1952, dal tacco a gabbia del 1955 alla suola a conchiglia.
Una fantasia progettuale che ha trovato continuità nelle generazioni successive alle quali va riconosciuto il plauso d’aver messo a punto modelli di scarpe e accessori divenuti nel tempo i simboli per antonomasia del marchio.

Ispirazione zeppa
La zeppa di sughero, che ha dato luogo negli anni a sempre nuovi modelli ed è uno dei simboli più riconoscibili di Ferragamo, è nata nel periodo autarchico per rispondere a un’esigenza di funzionalità: sostituire la lamina d’acciaio, interna alle calzature, che Ferragamo aveva brevettato negli anni ’20 per offrire sostegno all’arco del piede.
Senza l’acciaio adatto, importato dalla Germania e non più acquistabile a causa delle sanzioni economiche imposte all’Italia, infatti, era venuto a mancare uno dei principi fondamentali di costruzione delle scarpe Ferragamo. Ma Salvatore non si era perso d’animo, tanto che aveva cominciato a lavorare con pezzi di sughero sardo, pressando, incollando, fissando e rifinendo finché non aveva riempito lo spazio tra la suola e il tacco. Così era nata la zeppa: dall’esigenza di porre rimedio alla mancanza di una materia prima. Un modello destinato a divenire nel tempo una delle più celebri invenzioni della moda degli anni ’40. Leggenda vuole che alla duchessa di Visconti di Modrone fu lasciato l’onore di lanciare il primo paio di questa calzatura che, nel giro di poche settimane, divenne il modello più popolare di Salvatore Ferragamo.
In particolare, la zeppa offriva alla libertà creativa di un artista, qual era Salvatore Ferragamo, la possibilità di esprimere la propria fantasia su superfici ampie, cosa che tomaie e tacchi solitamente non concedono. Ferragamo sperimenta molte varianti di zeppe, a tacco e a piattaforma, a strati pressati e bombati, scolpite e dipinte, decorate con specchietti di vetro e tramite l’antica tecnica del mosaico, oppure con grate in ottone lavorate a girati floreali e tempestate di pietre, che sono da associare più al design contemporaneo, agli oggetti di uso domestico, alle architetture come il Chrysler Building di New York che non agli accessori della moda del momento.

Maharani style
Fin dagli anni ’30, fra le clienti più famose di Salvatore Ferragamo vi è stata Indira Devi, la Maharani di Cooch Behar. La principessa arrivava a ordinare anche cento paia di scarpe in una sola volta, tra cui diversi modelli decorati con perle e diamanti veri. Nel 1938, Salvatore Ferragamo creò per lei un sandalo con tomaia formata da fasce di capretto e raso cucite insieme e una zeppa di sughero, la sua ultima invenzione, rivestita di velluto e di una struttura in ottone sbalzato, incastonata di pietre fantasia, rubini, smeraldi, brillanti e altre gemme preziose inviate dalla Maharani direttamente dall’India.
Una calzatura straordinaria, opera di esperti artigiani eredi della tradizione artistica rinascimentale della città di Firenze, riprodotta nel 2003 in occasione dell’inaugurazione del nuovo flagship Ferragamo a Ginza, in esclusiva per il Giappone e solo su ordinazione, e fonte d’ispirazione di un’esclusiva linea di scarpe, borse e occhiali da sole.

Il sandalo invisibile
Salvatore Ferragamo non si stancava mai di sperimentare, riprendendo, il più delle volte, oggetti d’uso quotidiano e donando loro una nuova funzionalità d’essere. E così accadde anche con un filo di nylon trasparente che, avvolto attorno a un tacco scolpito, diede vita alla scarpa invisibile, modello grazie al quale vinse il Neiman Marcus Award. L’articolo non fu mai molto venduto visto che lasciava il piede talmente nudo che poche donne erano disposte ad accettare una tale sfida alla bellezza.
Il sandalo invisibile costava negli Stati Uniti dell’epoca 29.75 dollari, l’equivalente di quattro tonnellate di carbone.
È stata una delle calzature più famose del dopoguerra: sfilò a Dallas, dove Ferragamo ricevette il Neiman Marcus insieme a Christian Dior, Irene di Hollywood e Norman Hartnell, e fu considerato uno dei simboli più rappresentativi della moda di quegli anni. La particolare forma del tacco a zeppa sagomata a “F”, come l’iniziale del suo autore, diventerà uno dei leitmotiv delle collezioni Ferragamo negli anni successivi nonché uno degli emblemi universalmente riconosciuti del suo stile.

Tacco a F
Uno dei più noti brevetti di Salvatore Ferragamo è il tacco a zeppa sagomato come la poppa di una nave, la cui linea è ottenuta con appoggio centrale e parte posteriore a mensola. Nella storia della Maison è chiamato tacco a F perché Salvatore trasse ispirazione dalla F con la quale era solito firmarsi.

La suola a conchiglia
Un’altra celebre invenzione di Salvatore Ferragamo è stata la cosiddetta “suola a conchiglia”, impiegata in una serie fortunata di modelli: ballerine, stivaletti, décolleté e, addirittura, scarpe da danza classica. Presa a prestito ed elaborata sulla base dell’opanke, il mocassino degli Indiani d’America nel quale la suola risale sul tallone per diventare tomaia, la suola a conchiglia di Ferragamo contiene il piede, accarezzandolo con la sua forma curva e avvolgente.

Tacchi e suole in metallo
Nell’immaginario collettivo la seduzione femminile è rappresentata dai tacchi alti, possibilmente in metallo. Tacchi in acciaio e ottone si ritrovano nelle calzature Ferragamo fin dagli anni ’20: celebre è il modello di sandalo con tacco sfaccettato a piramide, ispirato alla scoperta della tomba di Tutankhamon in Egitto. Ma è negli anni ’50 che la moda dei tacchi in metallo conosce la sua massima affermazione. In particolare, nel 1955 Salvatore Ferragamo progetta alcuni importanti brevetti: un tacco metallizzato in diversi colori, ottenuto con il rivestimento di una lamina di alluminio; un tacco a gabbia, vuoto all’interno leggero e resistente; il terzo e più fantasioso, un tacco multiplo, arricchito da mascherine in metallo dorato o argentato, tempestate di pietre dure, simili a merletti, realizzate per mezzo delle mani di abili artigiani.
Tuttavia, l’invenzione più straordinaria è rappresentata dalla suola in metallo, che Ferragamo brevettò nel 1956 quando dovette creare un sandalo in oro 18 carati, la scarpa più costosa che avesse mai fatto, per soddisfare le esigenze di una cliente australiana, moglie di un magnate del petrolio. Il sandalo venne realizzato in collaborazione con gli orafi fiorentini di Ponte Vecchio, ai quali fu affidata l’esecuzione delle catene della tomaia e del rivestimento in oro della suola e del tacco, ornato da un drago a rilievo. A questo simbolo della preziosità dei materiali e della capacità manuale degli artigiani saranno dedicati alcuni modelli da sera successivi, come il sandalo Boreale della collezione autunno-inverno 2005-2006, in cui la seduzione del passato assume forme contemporanee.

Tacchi scultura
Fantasia e creatività sono i leitmotiv non solo di Salvatore Ferragamo ma anche della figlia Fiamma, alla quale si devono brevetti celebri di tacchi scolpiti che le hanno valso il Neiman Marcus Award nel 1967, vent’anni dopo suo padre.

Kimo
Correva l’anno 1951 e Ferragamo brevettò un nuovo genere di calzatura femminile, a giorno, combinata con una controcalzatura aderente al piede in colori e materiali differenti, detta kimo e ispirata al tabi giapponese. Questo modello fu utilizzato da Ferragamo per la prima sfilata di moda italiana a Firenze il 12 febbraio 1951, con gli abiti di Schuberth. L’idea della polifunzionalità del modello è stata ripresa più volte dalla Maison nel corso degli anni, applicandola al mondo degli accessori, dalle borse agli occhiali. 

STYLE_Mistero e voyeurismo per Louis Vuitton

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Il viaggio, come vuole la tradizione, è un leitmotiv delle collezioni di Louis Vuitton, che stagione dopo stagione, propone nuove interpretazioni di una magica esplorazione di luoghi e tempi lontani, insoliti e ricchi di fascino. Protagonista di queste avventure, una donna etera nella sua eleganza, avvolta da un’aura incantatrice, attratta dall’inconnue da una dimensione che comporta novità. Una viaggiatrice che non si ferma mai e, instancabile, continua in questo divenire di conoscenza e ammirazione, scoprendo nuovi orizzonti, lambendo terre lontane, facendo proprie reminiscenze, culture, idee e visioni. Per portare tutto con sé, nel meraviglioso scrigno dell’esperienza. Lo stesso scrigno dal quale Louis Vuitton scova, di volta in volta, stimoli e ispirazioni per le sue linee di abbigliamento e accessori.
Quella della collezione Autunno/Inverno 2013-2014, è una viaggiatrice misteriosa dal fascino sensuale, in bilico tra irrequietezza e fragilità, ma, al tempo stesso, consapevole e sicura della sua femminilità.
L'allestimento della sfilata riporta la mente nel corridoio di un vecchio hotel, su cui si affacciano 50 camere. Dietro ogni porta si celano altrettante donne con i loro segreti racchiusi in guardaroba Louis Vuitton. Ispirata ad una disinibita Liz Taylor nel film "Venere in visone" del 1960 di Daniel Mann, tratto dal romanzo del 1935 di John O'Hara, la donna Louis Vuitton per la stagione fredda che verrà esprime una lussuosa e cosciente sensualità.
Marc Jacobs, Direttore Artistico della Maison, ha dichiarato: “La collezione Autunno/Inverno 2013/2014 è una sublimazione del lusso, della qualità e del savoir-faire degli ateliers Louis Vuitton. L'intera collezione è pervasa da un'atmosfera voyeuristica, decadente e romantica. Sofisticati abiti da camera svelano il piacere di vestirsi solamente per scoprire che la destinazione più glamour è la propria camera d'hotel”.
In un solo apparente déshabillé, le modelle portano con eleganza e nonchalance pellicce indossate su abiti sottoveste, cappotti oversize su capi dalle stampe pijiama oppure osano fluide tuniche romantiche, ricamate da paillettes minuscole bordate di pelliccia di visone.Gli abiti giocano sul contrasto tra innocenza e malizia: sete stampate con i tipici disegni delle robe de chambre degli Anni ‘60 si alternano a pizzi trasparenti, i cui fiori e ricami sono realizzati da piccoli petali di piume. L’utilizzo dei tessuti maschili nei cappotti e negli abiti è ingentilito da dettagli in piume di marabù e paillettes degradé nei toni notturni. Vestaglie in seta foderate di piume stampate paisley si alternano a giacche e soprabiti in tweed o tartan, in una giustapposizione tra voyeurismo, intimità e esibizionismo. Decadenti pellicce di visone e astrakan arricchiscono anche i capi più semplici o foderano un lussuoso tailleur in coccodrillo spazzolato, mentre le palette dei colori virano su toni scure, quali il verde bosco o il blu notte, o polverose, rosa cipria e grigio in testa, come se i capi fossero in penombra, illuminati solo dalla luce fioca di un abat-jour.
Il lusso volutamente impolverato dei materiali del ready-to-wear Louis Vuitton viene riproposto anche nelle borse e negli accessori. Tre borse icona della Maison - la Pochette Accessoires, la Lockit e la Speedy - sono realizzate in pellami esotici, vitelli pregiati o rivestite in marabù e piume, tutte internamente foderate in pelliccia. Le tele Monogram e Damier non compaiono in passerella: la firma della Maison risiede nei virtuosismi delle lavorazioni e nella qualità estrema dei pellami, un omaggio al savoir-faire degli artigiani pellettieri Louis Vuitton. La Lockit, da portare ripiegata sotto la spalla come una maxi pochette, acquista forme più morbide e femminili; la Speedy è realizzata in nuvole di visone o in materiali esotici come coccodrillo, mentre i manici vengono proposti in legno esotico o corno; la maliziosa Pochette Accessoires, ingrandita nelle dimensioni, viene arricchita da pietre preziose sulla tracolla.
Anche le scarpe ricalcano il fil-rouge decadente che pervade l’intera collezione: i sandali, dalle forme sinuose e leggermente retrò, sono rivestiti da pellami esotici, come pitone e alligatore in colori naturali. I tacchi alti 12 centimetri e la punta aperta, donano il tocco finale di glamour, nostalgico e sensuale.
Una collezione regale, quintessenza di lusso ed eleganza, giocati però nelle loro declinazioni più tenui e voyeuristiche, senza ostentazioni né esasperazioni: tutto risplende di luce propria, vuoi per la preziosità dei materiali vuoi per il prestigio delle lavorazioni o per il recupero dell’heritage. In ogni caso, una collezione che parla per e della Maison, evocandone lo spirito autentico ed enfatizzandone i tratti più sofisticati; l’ennesima tappa del viaggio infinito di Louis Vuitton intorno al mondo, dove la cultura e la storia regnano sovrane, stimolando a un moto perpetuo quale chiave di volta per scoprire la perfezione della sua accezione più sublime. 
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